Di
Piero Piazzola
Le
“Fade” di Sprea
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Le Fade delle nostre parti erano creature umane, a volte buone, a volte cattive
e dispettose, e si potevano trasformare anche in animali di varie specie. Prima
del Concilio di Trento vivevano in libertà e si mescolavano alla popolazione
del paese. Certe volte si celebravano anche matrimoni tra Fade e uomini del
posto, che però non sapevano che le loro mogli fossero anche streghe, ma tali
matrimoni finivano sempre male.
Quando
le Fade facevano del bene, salvavano persone da animali imbizzarriti e
insegnavano alla gente a lavorare il latte e i suoi derivati come il formaggio,
il burro, la ricotta e la scòta (siero). Quando erano arrabbiate,
invece, diventavano cattive e dispettose. Tagliavano le trecce alle donne,
ingarbugliavano le matasse e i gomitoli di lana, si divertivano a disfare calze
e maglie che le donne avevano preparato la sera nelle stalle a ‘‘filò’’,
tagliavano a pezzetti i vestiti, la biancheria e altri capi di vestiario riposti
negli armadi, sporcavano il bucato nei mastelli, mescolavano la farina col riso
e la pasta, rubavano animali da cortile (ma non i maiali, animali immondi),
cucchiai forchette, coltelli, rompevano i piatti, facevano i nodi nelle lenzuola
oppure le stracciavano, mettevano nei materassi chiodi, legni, sassi, aghi da
cucire; incantavano e facevano parlare le bestie, i buoi, le mucche.
Mangiavano
carni di uomo e, di notte, nei cimiteri, facevano balli e banchetti. Di giorno,
invece, vestivano bene, con gonne lunghe di seta, grembiuli neri con ricami e
pizzi, in testa portavano belle cuffie e fazzoletti di pizzo, ciabatte di
velluto ai piedi e grandi mantelli scuri sulle spalle. Questi mantelli servivano
loro, di notte, quando lasciavano le loro case per andar a partecipare alle
riunioni nelle caverne. Durante le riunioni ballavano al suono di gigli e
gelsomini.
(Silvana
Perlati di Badia Calavena – 1971)
Le
“Fade” di Bolca
Le
Fade erano donne misteriose che vivevano nelle caverne e mangiavano carne umana.
Avevano il volto da donna, portavano lunghi abiti, erano piccole, robuste e
brutte. I loro piedi avevano gli zoccoli come i cavalli o le vacche; così non
si riusciva mai a sapere dove andavano a nascondersi di notte e le mani erano
come quelle delle scimmie, tutte coperte di pelo.
Di
giorno vivevano nelle caverne oppure si nascondevano sotto le pietre degli orti.
Se qualcuno alzava una pietra trovava un rospo o un serpente.
Al
sabato si trasformavano sempre in rospi o serpenti. La sera, dopo l’Ave Maria,
tutti dovevano restare chiusi in casa o in stalla, perché quelle uscivano dalle
caverne in cerca di cibo. Quando passavano davanti alle stalle delle contrade,
dove la gente andava a far ‘‘filò’’, gridavano: — Gh’è bràghe sui
scani? (cioè: ci sono uomini?). Se non v’erano uomini entravano e portavano
via le donne e i bambini e poi li mangiavano nelle loro caverne.
Qualche
volta, però, se un uomo andava in giro di notte, era ugualmente preso dalle
Fade e trascinato nelle caverne. Era ucciso e una sua coscia era poi attaccata
alla porta della sua casa.
Le Fade, dopo il Concilio di Trento, furono castigate a vivere
dentro le caverne e anche adesso là dentro ci sono ancora i loro spiriti. La
gente racconta che quando furono maledette dal Concilio, si disperarono e si
attaccarono alle sporgenze interne delle caverne lasciandovi sopra le impronte
delle mani e delle dita, che ancora adesso si possono vedere. Una di tali grotte
in cui esse vivevano si chiama “Grotta dei Damati” nei pressi di Badia
Calavena. (Gli
alunni di Sprea — 1970)
Una
“Fada mamma” di Bolca
Una
donna di Bolca sposò un uomo di Badia Calavena. Dal loro matrimonio sono nate
due figlie e tutta la famiglia passò alcuni anni felici e contenti. Un giorno
la moglie disse al marito: — Non toccarmi mai le mani mentre mescolo la
polenta —. E Il marito non le toccò più le mani. Ma le voleva tanto bene che
un giorno, per scherzo, gliele toccò le mani mentre stava mescolando la
polenta.
La
moglie subito si trasformò in un uccellino e volò via. Passarono due, tre mesi
e un giorno quell’uomo tornò a casa dai campi, verso sera, e restò
meravigliato quando entrò in casa, perché vide che la sua casa era tutta in
ordine, pulita e lavata, e le figlie gli assicurarono che era venuta la mamma e
aveva fatto tutte le faccende di casa. Allora chiese alle figlie da che parte
era andata via la madre.
Le
figlie gli risposero che era andata nell’orto dentro il rosaio (roseto).
L’uomo andò nell’orto, scavò per terra vicino al rosaio e trovò una
bestiolina. Ma non sapendo che bestia fosse la schiacciò sotto il tacco delle
scarpe. Da quel giorno la donna, che era una fada, non si fece più vedere e la
casa tornò nel disordine e nella miseria.
Le
“Fade” dei Massalonghi
Sotto
la contrada Massalonghi (di SS. Trinità) c’è una caverna in mezzo al bosco.
Una volta in quella caverna si riunivano le fade per mangiare carne umana e,
davanti alla caverna, c’era un pozzo di pura acqua fresca. Di giorno le fade
uscivano dalle caverne per tirar su acqua dal pozzo. Di notte, invece, uscivano
per andare in giro nelle case e nelle stalle.
Prima
di entrare in una casa o in una stalla chiedevano — Gh’è braghe sui
scani? (Ci sono uomini seduti sulle panche?). Se le donne, dal di dentro,
rispondevano — Braghe non ghe n’è (Non ci sono uomini), le fade
entravano e facevano dispetti e rubavano bambini e donne.
Un
uomo della contrada non credeva a queste storie e non credeva che ci fossero le
fade. Una sera rispose lui con la solita frase — Limpe, lampe, pòrteme
anca a mi la me parte. La sera seguente trovò sulla porta di casa sua una
gamba di bambino attaccata ad un chiodo. Spaventato aspettò che si fosse di
nuovo buio e come la sera prima, alla stessa ora, rispose — Limpe, lampe, pòrtete
via la to parte. La mattina seguente sulla porta non c’era più la gamba
del bambino.
Se
ci spostiamo poi a Bolca, verso mattina, comunità cimbra più vicina
all’antico comune vicentino di Durlo, cimbro pure esso, dove le ‘‘Fade’’,
quando ve ne sono, sembrano essere state importate dai paesi vicini e sono
considerate più sulla falsariga di ‘‘Strie’’ o ‘‘Stroliche’’,
v’è una narrativa che converge tutta verso le più miti e semplici ‘‘Guandàne’’
e i racconti di quel paese le fanno risultare molto umane, molto donne, molto
madri, molto creature di questo mondo. Si legga la leggenda della Fada di Bolca
che ogni tanto torna a casa a rivedere di nascosto le sue bambine, a mettere in
ordine e a far pulizia.
Le
‘‘Anguane’’ o ‘Bèle butèle’’ di Campofontana
A Campofontana le chiamavano‘‘Strie’’, ma soprattutto ‘‘Anguane’’
o ‘‘Bèle butèle’’. Abitavano in un cóvolo dietro il Séngio
del Fantalón, o Séngio Rosso, sotto la vetta del Monte Telegrafo. Con loro
c’era un mago molto buono, che si chiamava Camìlgiar e che le serviva facendo
sgorgare ogni tanto una nuova fonte d’acqua. Le Bèle butèle aiutavano le
donne del paese a lavare, asciugare e pulire il bucato ma anche a lavare,
asciugare, cardare e filare la lana. Tuttavia facevano questo solamente se la
biancheria e la lana erano di colore bianco perfetto, anche se sporche; non
volevano assolutamente biancheria o lana di colore nero, perché allora si
arrabbiavano.
Erano molto belle e somigliavano esteriormente in tutto alle altre donne del paese, vestivano, però, sempre di nero. Lavoravano di notte e tendevano delle grosse funi di canapa dal loro covolo fino alle purghe di Bolca, di Durlo e di Velo Veronese; sopra quelle funi distendevano il bucato ad asciugare e alla mattina le donne andavano al Pozzo dei Seràldi a portarsi a casa il bucato bell’e pronto. Di giorno non si facevano mai vedere, si nascondevano nel loro cóvolo o in altre caverne della montagna, perché quando suonava l’Ave Maria della mattina, non potevano più andare in giro a fare il loro lavoro. Cominciavano, invece, a lavorare, di sera, dopo il suono dell’Ave Maria. Le nostre donne raccontano che esse potevano mettere al mondo anche dei bambini che si portavano in giro di notte assieme. Dicono anche che una volta c’erano molte fontane nel paese e davano tanta acqua; le Anguane mantenevano costantemente aperte queste vene. Dopo il Concilio di Trento si nascosero nei Covoli di Velo e, da allora, tutte le fontane si sono inaridite. (Lina Roncari di Campofontana — 1965).
Le
‘‘Guandàne’’ di Durlo e di Campodalbero
Nella
tana delle ‘‘Guandàne’’ abitava una bella ragazza che aveva lunghi
capelli biondi: si chiamava Ittele. Di notte se ne andava in giro per i monti su
di un cavallo bianco. La sua tana si trovava giù nel vajo che va a Campodalbero.
Un
giorno un uomo ritornava a cavallo dal paese di Valdagno e quando fu nel vajo
sentì una voce di donna che chiamava a voce alta: — Uomo con la cavalla
nera! Dite a Ittele che Uttele sta male. L’uomo non sapeva chi fosse
Uttele, ma conosceva bene la ragazza che per ringraziarlo gli diede una ciocca
dei suoi capelli biondi. Uttele era un’altra guandàna amica di Ittele.
Molto
tempo dopo, lo stesso uomo passò un’altra volta per la medesima strada e di
nuovo sentì la stessa voce che disse: — Uomo dalla cavalla nera! Dite a
Ittele che Uttele è morta. L’uomo allora andò da Ittele a raccontare
quella notizia misteriosa. Ittele ci restò male per la notizia.
Da
quel giorno la giovane donna non fu più vista in quel posto. Però la gente
dice che la vedevano tutti i venerdì che si pettinava.
Le
‘‘Genti Beate’’ o ‘‘Sealagan Laute’’ di Giazza
Ieri mi sono recata alla contrada Balt (Bosco) a parlare con la donna più
anziana del paese; si chiama Caterina Balt, di anni 86. Le ho chiesto notizie
sulle “Genti Beate”, e mi ha risposto quasi sorridendo che erano streghe
cattive.
Abitavano
nella valle alta di Fraselle, sotto la Roccia dei Capretti (Kitzarstuan),
dove si trova una spelonca chiamata delle “Genti beate” appunto. Esse davano
la caccia a uccelli, caprioli, vipere, e altri animali e con le loro carni si
cibavano.
Qualche
volta però scendevano anche in paese, in processione, soprattutto durante la
Notte dei Morti, tenendo in mano un tizzone acceso che, poi altro non era che un
braccio di un morto che bruciava.
Rapivano
anche donne, uomini e bambini li uccidevano e li mangiavano crudi. Portavano
vestiti che davanti splendevano come il sole, ma dietro erano fatti di scorze
d’abete. Una volta, alcuni giovani tentarono di rubare loro questi abiti, ma
caddero a terra, morti fulminati.
Le
Genti Beate facevano il bucato per la gente del paese e tiravano una lunga fune
dal Monte Grola al Monte di Campostrin e alla Roatebant (Sengio rosso);
sopra questa fune stendevano la biancheria ad asciugare al sole.
Esse
andavano avanti e indietro su questa fune, perché c’erano tanti uccelli che
andavano a posarsi sulla biancheria e la sporcavano. Per spaventarli gridavano a
squarciagola: ‘‘Sciua, ra, ra...’’, cioè: Volate via, via, via.
(Raccolte
dagli alunni del m.o Giulio Boschi, a Giazza, nel 1968).
Alcune
considerazioni
Mi
preme fare alcune considerazioni sulle creature immaginarie e porre in evidenza
il fatto che in un così piccolo territorio, le identità, i ruoli, l’habitat,
le stesse vocazioni lavorative delle streghe nominate, i loro comportamenti
esteriori, cambiano di valore e d’ìmportanza tra una valle e l’altra, tra
una dorsale e l’altra; si differenziano a tal punto che danno vita a
sostanziali difformità tipologiche, quasi come se quelle creature fossero un
riflesso delle identità morali delle singole popolazioni che le hanno volute,
immaginate e create, in certo qual modo, così.
Vediamo,
per esempio, il diverso modo di essere Fada nella favolistica che compare
tra Badia Calavena e Sprea, due località a neanche un chilometro di distanza
tra loro in linea d’aria; di essere Anguana a Campofontana e Sealagan
laute a Giazza, località a un chilometro circa di distanza.
Probabilmente a Badia, località di fondovalle, più a contatto con la
civiltà moderna che procedeva in lento ma costante cammino anche verso la
montagna, le fade non paiono così sanguinarie come quelle di Sprea,
paesino in dorsale, per secoli tagliato fuori dal cosiddetto ‘‘consorzio
umano’, o di certe località ai margini del comprensorio comunale, oppure
lontano dalle vie di comunicazione più importanti. Si legga la storia delle fade
dei Massalonghi, una contrada di SS. Trinità (Badia Calavena).
Le
fade di Sprea anche se le leggende le descrivono riccamente vestite, ma
mostruose, ributtanti, se si considera che hanno piedi terminanti a zoccolo di
cavallo o di caprone o di vacca, portano le mani sempre coperte di mezzi guanti,
perché sono pelose all’eccesso, corpo compreso.
Ma
sono anche quelle che banchettano spesso e volentieri con il loro signore,
Belzebù, il diavolo, negli antri e nelle caverne e riportano alle case cosce e
resti delle loro vittime. Esse non hanno accolto con una certa ‘‘rassegnazione’’
il verdetto del Concilio di Trento; si sono ritirate sì nelle caverne, ma hanno
lasciato in esse il segno della loro disperazione e, a quanto pare, ancora vi
dimorano, ostinatamente trasgressive, recidive alla condanna della Chiesa.
Le
Anguane, invece, sono sparite dalla circolazione, con naturalezza,
portando con sé il segreto della ricchezza delle acque, del modo di far
scaturire nuove vene acquifere nel territorio. Le Genti Beate, pure esse,
sembrano essere entrate nell’al di là della loro esistenza, ma senza creare
traumi infausti e senza accusarne esse stesse.
A
Campofontana una leggenda sulle ‘‘Anguane’’ o ‘‘Bele butèle’’
andava sulla bocca di tutti negli anni Trenta/Quaranta. L’ho sentita
raccontare io stesso quand’ero bambino e, poi fatto adulto, l’ho potuta
raccogliere anche da altre bocche e sempre con qualche variante diversa
e ne ho tratto una leggenda.