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Orchi, Fade e Anguane...

 

 

Avvertenza di A.Solati.

Storie di un’altra vallata.

 

    A prima vista queste storie della Valle di Illasi sembrerebbero non riguardarci.

    Se però andiamo a leggere il fascicolo Festa del Campagnol del 1994 opera dello stesso Maestro Piero Piazzola ci accorgeremo che moltissime famiglie sanmartinesi sono proprio originarie di quella vallata o in generale della Lessinia, tanti cognomi sono addirittura toponimi di piccole contrade.

    Probabilmente molti giovani, o meno giovani, ricorderanno di averle sentite dalla nonna o dalla mamma a cui le aveva raccontate la nonna. Anche questo è un modo per non dimenticare le nostre radici.

    Per chi non se li fosse procurati a suo tempo, i vari fascicoli della Festa del Campagnol sono consultabili nella Biblioteca “Don Milani”.

    Notizie sui cognomi sanmartinesi, ad opera della stesso Autore, si trovano anche in numeri passati del giornale Parrocchiale “Qui San Martino”. 

 

Orchi, fade e anguane nell’immaginario popolare della Lessinia

 

di Piero Piazzola

 

Premessa

 

Il territorio oggetto della nostra esplorazione.

 

Per cominciar a capire come mai in alcune zone della Lessinia sussistano ancora leggende e “storie” che riferiscono d’esseri immaginari, creati in pratica dalla fantasia popolare, come gli orchi, le fade, le anguane e via dicendo, bisogna prendere conoscenza con il territorio specifico in cui queste leggende si sono sviluppate e tramandate, da generazione a generazione, nei racconti dei “filò”.

Cominciamo, allora, a tracciare un rettangolo ideale sulla carta geografica tra l’alta Lessinia e l’alta Vallata del Chiampo (vedi cartina allegata).

 

 

 

 

In alto, a sinistra, un angolo cade pressappoco nel punto in cui si legge “Casara Broletto”, una baita presso i Tracchi. A destra della figura, un altro angolo si fissa in località Lovati di Valdagno. L’angolo sud, a mattina, si può fissare nei pressi di Contrada Bacchi di Vestenanova. Quello a sud, ma a sera, invece, si troverebbe vicino alla contrada Zambelli di Cerro Veronese.

Dentro questo rettangolo si notano i paesi che hanno saputo conservare e divulgare le “storie” che andremo ad accennare. Essi sono: nella Valle del Chiampo, Crespadoro e più a nord, Calpodalbero e Durlo.

A mezzogiorno, nella fascia più bassa, si collocano quelli di Bolca, Sprea e Badia Calavena; nella banda più alta, quelli di Campofontana e di San Bortolo delle Montagne. Nella valle del Progno–Illasi, i paesi di Sant’Andrea, Selva di Progno e Giazza.

Andando poi verso sera e salendo lungo il lato ovest del rettangolo, si registrano i nomi di San Mauro di Saline, Roveré Veronese, Velo Veronese e Camposilvano 

 

Le creature della fantasia popolare

 

In alta Val d’Illasi, nel Veronese, sul fondovalle più settentrionale, si adagiano tre località di particolare interesse per il tema dell’immaginario popolare: Badia Calavena, l’antica ‘‘Abato’’ dei Tredici Comuni Cimbri Veronesi; Sant’Andrea, frazione del precedente capoluogo, anticamente detta ‘‘Sprea cum Progno’’; Selva di Progno, la cimbrica ‘‘Prunge’’; Giazza o ‘‘Ljetzan’’, simpaticissimo paesino dove ancora nei conversari si usa il taucias garèida, antica parlata della bassa Germania.

 Sulla dorsale che s’innalza tra questa vallata e quella vicentina ad oriente, vale a dire l’alta Val del Chiampo, si attestano alcuni altri centri abitati, quali Bolca, famosa in tutto il mondo per i suoi meravigliosi pesci fossili che risalgono a circa 40 milioni di anni fa; San Bortolo delle Montagne, nel passato meglio conosciuto come San Bortolamio Teutonico o Tedesco, per l’insediamento dei coloni tedeschi durato fino ai primi dell’Ottocento; Sprea, frazione di Badia Calavena, nel secolo scorso conosciuta per il suo parroco, don Luigi Zocca, ‘‘botanico e guaritore’’, che l’ha retta fino agli anni Cinquanta; e infine, Campofontana, il più alto paese della Lessinia e della provincia di Verona.

Tornando ancora a valle, ma verso mattina, segnatamente in Val del Chiampo, si incontrano un paio di nuclei abitati, cui fanno capo un certo numero di contrade, e cioè Durlo, pure essa antica comunità cimbra che conserva numerosi toponimi e cognomi di matrice altotedesca; Campodalbero, all’estremità settentrionale della vallata, press’a poco sul medesimo parallelo di Giazza; entrambi in comune di Crespadoro. Fatta conoscenza con questi luoghi proviamo a incontrarci con le figure degli esseri immaginari che si sono caratterizzati maggiormente nella memoria della gente.

Tra gli anni Cinquanta e la fine del Sessanta del secolo passato, col metodo delle registrazioni su nastro magnetico dalla viva voce degli adulti, oppure servendomi della collaborazione di alcuni insegnanti di scuola elementare, erano nativi del posto e che abitavano ‘‘in loco’’, interessati, quindi, pure essi, a ricercare, riscrivere e dar nuovo valore all’etnia, ho potuto raccogliere circa 150 leggende o, meglio, ‘‘storie’’, come si usava chiamarle in termini popolari; racconti, tutti brevissimi, sintetici, al limite della favola esopea, che riguardano essenzialmente tre (o quattro al massimo) tipologie differenti di esseri fantastici che ‘‘abitavano’’ prevalentemente la zona citata: le ‘‘Genti Beate’’ o ‘‘Sealagan Laute’’ di Giazza; le ‘‘Fade’’ di Sprea, Badia Calavena, Bolca e San Bortolo delle Montagne; le ‘‘Anguane’’ o ‘‘Bele butèle’’ di Campofontana; le ‘‘Guandàne’’ di Durlo e di Campodalbero e, infine, l’‘‘Orco’’ e il “Basilisco”. Più a sera, i dintorni di Camposilvano, Velo Veronese e del Vajo dello Squaranto, erano abitati invece dalla “Fade”, ma di natura e di costituzione fisica molto dissimili dalle “Fade” di Sprea, Badia Calavena, Bolca. Di queste creature delle zone di Camposilvano e dintorni, Attilio Benetti ha scritto un volumetto molto prezioso.

 

Le “Fade” di Sprea

 

« Le Fade delle nostre parti erano creature umane, a volte buone, a volte cattive e dispettose, e si potevano trasformare anche in animali di varie specie. Prima del Concilio di Trento vivevano in libertà e si mescolavano alla popolazione del paese. Certe volte si celebravano anche matrimoni tra Fade e uomini del posto, che però non sapevano che le loro mogli fossero anche streghe, ma tali matrimoni finivano sempre male.

Quando le Fade facevano del bene, salvavano persone da animali imbizzarriti e insegnavano alla gente a lavorare il latte e i suoi derivati come il formaggio, il burro, la ricotta e la scòta (siero). Quando erano arrabbiate, invece, diventavano cattive e dispettose. Tagliavano le trecce alle donne, ingarbugliavano le matasse e i gomitoli di lana, si divertivano a disfare calze e maglie che le donne avevano preparato la sera nelle stalle a ‘‘filò’’, tagliavano a pezzetti i vestiti, la biancheria e altri capi di vestiario riposti negli armadi, sporcavano il bucato nei mastelli, mescolavano la farina col riso e la pasta, rubavano animali da cortile (ma non i maiali, animali immondi), cucchiai forchette, coltelli, rompevano i piatti, facevano i nodi nelle lenzuola oppure le stracciavano, mettevano nei materassi chiodi, legni, sassi, aghi da cucire; incantavano e facevano parlare le bestie, i buoi, le mucche.

Mangiavano carni di uomo e, di notte, nei cimiteri, facevano balli e banchetti. Di giorno, invece, vestivano bene, con gonne lunghe di seta, grembiuli neri con ricami e pizzi, in testa portavano belle cuffie e fazzoletti di pizzo, ciabatte di velluto ai piedi e grandi mantelli scuri sulle spalle. Questi mantelli servivano loro, di notte, quando lasciavano le loro case per andar a partecipare alle riunioni nelle caverne. Durante le riunioni ballavano al suono di gigli e gelsomini.

(Silvana Perlati di Badia Calavena – 1971)

 

Le “Fade” di Bolca

 

Le Fade erano donne misteriose che vivevano nelle caverne e mangiavano carne umana. Avevano il volto da donna, portavano lunghi abiti, erano piccole, robuste e brutte. I loro piedi avevano gli zoccoli come i cavalli o le vacche; così non si riusciva mai a sapere dove andavano a nascondersi di notte e le mani erano come quelle delle scimmie, tutte coperte di pelo.

Di giorno vivevano nelle caverne oppure si nascondevano sotto le pietre degli orti. Se qualcuno alzava una pietra trovava un rospo o un serpente.

Al sabato si trasformavano sempre in rospi o serpenti. La sera, dopo l’Ave Maria, tutti dovevano restare chiusi in casa o in stalla, perché quelle uscivano dalle caverne in cerca di cibo. Quando passavano davanti alle stalle delle contrade, dove la gente andava a far ‘‘filò’’, gridavano: — Gh’è bràghe sui scani? (cioè: ci sono uomini?). Se non v’erano uomini entravano e portavano via le donne e i bambini e poi li mangiavano nelle loro caverne.

Qualche volta, però, se un uomo andava in giro di notte, era ugualmente preso dalle Fade e trascinato nelle caverne. Era ucciso e una sua coscia era poi attaccata alla porta della sua casa.

 Le Fade, dopo il Concilio di Trento, furono castigate a vivere dentro le caverne e anche adesso là dentro ci sono ancora i loro spiriti. La gente racconta che quando furono maledette dal Concilio, si disperarono e si attaccarono alle sporgenze interne delle caverne lasciandovi sopra le impronte delle mani e delle dita, che ancora adesso si possono vedere. Una di tali grotte in cui esse vivevano si chiama “Grotta dei Damati” nei pressi di Badia Calavena.

 (Gli alunni di Sprea — 1970)

  

Una “Fada mamma” di Bolca

 

Una donna di Bolca sposò un uomo di Badia Calavena. Dal loro matrimonio sono nate due figlie e tutta la famiglia passò alcuni anni felici e contenti. Un giorno la moglie disse al marito: — Non toccarmi mai le mani mentre mescolo la polenta —. E Il marito non le toccò più le mani. Ma le voleva tanto bene che un giorno, per scherzo, gliele toccò le mani mentre stava mescolando la polenta.

La moglie subito si trasformò in un uccellino e volò via. Passarono due, tre mesi e un giorno quell’uomo tornò a casa dai campi, verso sera, e restò meravigliato quando entrò in casa, perché vide che la sua casa era tutta in ordine, pulita e lavata, e le figlie gli assicurarono che era venuta la mamma e aveva fatto tutte le faccende di casa. Allora chiese alle figlie da che parte era andata via la madre.

Le figlie gli risposero che era andata nell’orto dentro il rosaio (roseto). L’uomo andò nell’orto, scavò per terra vicino al rosaio e trovò una bestiolina. Ma non sapendo che bestia fosse la schiacciò sotto il tacco delle scarpe. Da quel giorno la donna, che era una fada, non si fece più vedere e la casa tornò nel disordine e nella miseria.
 

Le “Fade” dei Massalonghi

 

Sotto la contrada Massalonghi (di SS. Trinità) c’è una caverna in mezzo al bosco. Una volta in quella caverna si riunivano le fade per mangiare carne umana e, davanti alla caverna, c’era un pozzo di pura acqua fresca. Di giorno le fade uscivano dalle caverne per tirar su acqua dal pozzo. Di notte, invece, uscivano per andare in giro nelle case e nelle stalle.

Prima di entrare in una casa o in una stalla chiedevano — Gh’è braghe sui scani? (Ci sono uomini seduti sulle panche?). Se le donne, dal di dentro, rispondevano — Braghe non ghe n’è (Non ci sono uomini), le fade entravano e facevano dispetti e rubavano bambini e donne.

Un uomo della contrada non credeva a queste storie e non credeva che ci fossero le fade. Una sera rispose lui con la solita frase — Limpe, lampe, pòrteme anca a mi la me parte. La sera seguente trovò sulla porta di casa sua una gamba di bambino attaccata ad un chiodo. Spaventato aspettò che si fosse di nuovo buio e come la sera prima, alla stessa ora, rispose — Limpe, lampe, pòrtete via la to parte. La mattina seguente sulla porta non c’era più la gamba del bambino.

Se ci spostiamo poi a Bolca, verso mattina, comunità cimbra più vicina all’antico comune vicentino di Durlo, cimbro pure esso, dove le ‘‘Fade’’, quando ve ne sono, sembrano essere state importate dai paesi vicini e sono considerate più sulla falsariga di ‘‘Strie’’ o ‘‘Stroliche’’, v’è una narrativa che converge tutta verso le più miti e semplici ‘‘Guandàne’’ e i racconti di quel paese le fanno risultare molto umane, molto donne, molto madri, molto creature di questo mondo. Si legga la leggenda della Fada di Bolca che ogni tanto torna a casa a rivedere di nascosto le sue bambine, a mettere in ordine e a far pulizia.

  

Le ‘‘Anguane’’ o ‘Bèle butèle’’ di Campofontana

 
A Campofontana le chiamavano‘‘Strie’’, ma soprattutto ‘‘Anguane’’ o ‘‘Bèle butèle’’. Abitavano in un cóvolo dietro il Séngio del Fantalón, o Séngio Rosso, sotto la vetta del Monte Telegrafo. Con loro c’era un mago molto buono, che si chiamava Camìlgiar e che le serviva facendo sgorgare ogni tanto una nuova fonte d’acqua. Le Bèle butèle aiutavano le donne del paese a lavare, asciugare e pulire il bucato ma anche a lavare, asciugare, cardare e filare la lana. Tuttavia facevano questo solamente se la biancheria e la lana erano di colore bianco perfetto, anche se sporche; non volevano assolutamente biancheria o lana di colore nero, perché allora si arrabbiavano.

Erano molto belle e somigliavano esteriormente in tutto alle altre donne del paese, vestivano, però, sempre di nero. Lavoravano di notte e tendevano delle grosse funi di canapa dal loro covolo fino alle purghe di Bolca, di Durlo e di Velo Veronese; sopra quelle funi distendevano il bucato ad asciugare e alla mattina le donne andavano al Pozzo dei Seràldi a portarsi a casa il bucato bell’e pronto. Di giorno non si facevano mai vedere, si nascondevano nel loro cóvolo o in altre caverne della montagna, perché quando suonava l’Ave Maria della mattina, non potevano più andare in giro a fare il loro lavoro. Cominciavano, invece, a lavorare, di sera, dopo il suono dell’Ave Maria. Le nostre donne raccontano che esse potevano mettere al mondo anche dei bambini che si portavano in giro di notte assieme. Dicono anche che una volta c’erano molte fontane nel paese e davano tanta acqua; le Anguane mantenevano costantemente aperte queste vene. Dopo il Concilio di Trento si nascosero nei Covoli di Velo e, da allora, tutte le fontane si sono inaridite.

 (Lina Roncari di Campofontana — 1965).

 

Le ‘‘Guandàne’’ di Durlo e di Campodalbero

 

Nella tana delle ‘‘Guandàne’’ abitava una bella ragazza che aveva lunghi capelli biondi: si chiamava Ittele. Di notte se ne andava in giro per i monti su di un cavallo bianco. La sua tana si trovava giù nel vajo che va a Campodalbero.

Un giorno un uomo ritornava a cavallo dal paese di Valdagno e quando fu nel vajo sentì una voce di donna che chiamava a voce alta: — Uomo con la cavalla nera! Dite a Ittele che Uttele sta male. L’uomo non sapeva chi fosse Uttele, ma conosceva bene la ragazza che per ringraziarlo gli diede una ciocca dei suoi capelli biondi. Uttele era un’altra guandàna amica di Ittele.

Molto tempo dopo, lo stesso uomo passò un’altra volta per la medesima strada e di nuovo sentì la stessa voce che disse: — Uomo dalla cavalla nera! Dite a Ittele che Uttele è morta. L’uomo allora andò da Ittele a raccontare quella notizia misteriosa. Ittele ci restò male per la notizia.

Da quel giorno la giovane donna non fu più vista in quel posto. Però la gente dice che la vedevano tutti i venerdì che si pettinava.

  

Le ‘‘Genti Beate’’ o ‘‘Sealagan Laute’’ di Giazza

 
Ieri mi sono recata alla contrada Balt (Bosco) a parlare con la donna più anziana del paese; si chiama Caterina Balt, di anni 86. Le ho chiesto notizie sulle “Genti Beate”, e mi ha risposto quasi sorridendo che erano streghe cattive.

Abitavano nella valle alta di Fraselle, sotto la Roccia dei Capretti (Kitzarstuan), dove si trova una spelonca chiamata delle “Genti beate” appunto. Esse davano la caccia a uccelli, caprioli, vipere, e altri animali e con le loro carni si cibavano.

Qualche volta però scendevano anche in paese, in processione, soprattutto durante la Notte dei Morti, tenendo in mano un tizzone acceso che, poi altro non era che un braccio di un morto che bruciava.

Rapivano anche donne, uomini e bambini li uccidevano e li mangiavano crudi. Portavano vestiti che davanti splendevano come il sole, ma dietro erano fatti di scorze d’abete. Una volta, alcuni giovani tentarono di rubare loro questi abiti, ma caddero a terra, morti fulminati.

Le Genti Beate facevano il bucato per la gente del paese e tiravano una lunga fune dal Monte Grola al Monte di Campostrin e alla Roatebant (Sengio rosso); sopra questa fune stendevano la biancheria ad asciugare al sole.

Esse andavano avanti e indietro su questa fune, perché c’erano tanti uccelli che andavano a posarsi sulla biancheria e la sporcavano. Per spaventarli gridavano a squarciagola: ‘‘Sciua, ra, ra...’’, cioè: Volate via, via, via.

 (Raccolte dagli alunni del m.o Giulio Boschi, a Giazza, nel 1968).

 

 

Alcune considerazioni

 

Mi preme fare alcune considerazioni sulle creature immaginarie e porre in evidenza il fatto che in un così piccolo territorio, le identità, i ruoli, l’habitat, le stesse vocazioni lavorative delle streghe nominate, i loro comportamenti esteriori, cambiano di valore e d’ìmportanza tra una valle e l’altra, tra una dorsale e l’altra; si differenziano a tal punto che danno vita a sostanziali difformità tipologiche, quasi come se quelle creature fossero un riflesso delle identità morali delle singole popolazioni che le hanno volute, immaginate e create, in certo qual modo, così.

Vediamo, per esempio, il diverso modo di essere Fada nella favolistica che compare tra Badia Calavena e Sprea, due località a neanche un chilometro di distanza tra loro in linea d’aria; di essere Anguana a Campofontana e Sealagan laute a Giazza, località a un chilometro circa di distanza.

  Probabilmente a Badia, località di fondovalle, più a contatto con la civiltà moderna che procedeva in lento ma costante cammino anche verso la montagna, le fade non paiono così sanguinarie come quelle di Sprea, paesino in dorsale, per secoli tagliato fuori dal cosiddetto ‘‘consorzio umano’, o di certe località ai margini del comprensorio comunale, oppure lontano dalle vie di comunicazione più importanti. Si legga la storia delle fade dei Massalonghi, una contrada di SS. Trinità (Badia Calavena).

Le fade di Sprea anche se le leggende le descrivono riccamente vestite, ma mostruose, ributtanti, se si considera che hanno piedi terminanti a zoccolo di cavallo o di caprone o di vacca, portano le mani sempre coperte di mezzi guanti, perché sono pelose all’eccesso, corpo compreso.

Ma sono anche quelle che banchettano spesso e volentieri con il loro signore, Belzebù, il diavolo, negli antri e nelle caverne e riportano alle case cosce e resti delle loro vittime. Esse non hanno accolto con una certa ‘‘rassegnazione’’ il verdetto del Concilio di Trento; si sono ritirate sì nelle caverne, ma hanno lasciato in esse il segno della loro disperazione e, a quanto pare, ancora vi dimorano, ostinatamente trasgressive, recidive alla condanna della Chiesa.

Le Anguane, invece, sono sparite dalla circolazione, con naturalezza, portando con sé il segreto della ricchezza delle acque, del modo di far scaturire nuove vene acquifere nel territorio. Le Genti Beate, pure esse, sembrano essere entrate nell’al di là della loro esistenza, ma senza creare traumi infausti e senza accusarne esse stesse.

 

A Campofontana una leggenda sulle ‘‘Anguane’’ o ‘‘Bele butèle’’ andava sulla bocca di tutti negli anni Trenta/Quaranta. L’ho sentita raccontare io stesso quand’ero bambino e, poi fatto adulto, l’ho potuta raccogliere anche da altre bocche e sempre con qualche variante diversa  e ne ho tratto una leggenda.

 

L’ “ORCO” 

NEI  RACCONTI  DELLA FANTASIA POPOLARE IN LESSINIA

 

COME ERA E CHI ERA L’ORCO?

 
Oltre alle Fade, Anguane, Genti beate, e via dicendo, creature femminili per eccellenza, esistevano altre due creature immaginarie create dalla fantasia popolare: l’ORCO e il BASILISCO. Del Basilisco parleremo in altra occasione.

 

L’Orco, da quello che abbiamo potuto appurare attraverso i racconti che circolavano durante le sere dei “filò” nelle stalle o che abbiamo raccolte dalla viva voce di ragazzini e di adulti, a Campofontana e in altri paesi vicini,  l’Orco, secondo la nostra mentalità di umani, era un personaggio di sesso opposto a quello delle Fade, delle Anguane, delle Genti Beate. Ma era tuttavia un essere difficilmente classificabile in campo sessuale e fisiologico, date le sue continue e inimmaginabili trasformazioni.

Ho ritenuto, quindi, di completare questo quadro di “scienza magica”, tra virgolette,  con alcune indicazioni circa la sua fisionomia, se per fisionomia significa dare un volto ad un essere del genere, con tutte le sue inclinazioni comportamentali, considerate nella moltitudine confusa delle apparizioni che la gente ha registrato sul suo conto. Ma chi è l’Orco? Com'è fatto?  Dove lo trovi?

Le leggende che riguardano l’Orco non riescono a stabilire con esattezza com'era fatto oppure se avesse, al di là dei suoi molteplici e strani camuffamenti occasionali, un suo volto ben specifico. Ora si presenta sotto forma di bastone, poi, più in là di qualche chilometro, oppure a distanza di qualche ora, di notte o di giorno non importa, diventa cavallo, scrofa, pecora, lupo, anitra e via dicendo. Una volta si cela dietro il volto e il corpo di una bellissima fanciulla, un’altra volta in un brutto e rattrappito vecchio. Ora è bambino, ora uomo adulto, ora antenato barbuto; ora gigante, ora nanerottolo; ora persona distinta e garbata, ora invece un essere grossolano e volgare.

 

 

L'orco si trasforma in una scrofa con in suoi maialini

 

disegno di A.Norsa

 

Quando lo ritiene opportuno diventa fiamma, incendio, fumo, fuoco, grandine, fulmine, vento, uragano. Oggi si fa sentire con un prolungato lamento, domani con un canto, e dopodomani come una voce che viene dall’aldilà o ancora come il volo silenzioso di un folletto o quello violento di un rapace.

L’Orco non privilegia un’abitazione fissa,  in una località ben determinata; cioè non ha una sua “casa”, se si può chiamare casa il luogo, l’antro, la roccia dove abitare come, al contrario, avveniva per le Fade ecc., che avevano quasi tutte una loro sede fissa, per compiere le loro tregende o per ricoverarsi di notte o per il ritiro settimanale d’obbligo.

 

L’Orco non ha caverne, anfratti, grotte, covoli, voragini. Lo s'incontra da per tutto e sempre occasionalmente. Se credi di ritrovarlo nello stesso posto il giorno dopo che è apparso in una data località, ti sbagli di grosso. Appare or qua or là senza un preciso riferimento geografico e ambientale. Lo s’incontra qua e là, dove meno l’aspettiamo; sul monte, come in valle, in un prato o in un bosco, in una radura, accanto alle caverne, come presso le case, persino nelle vicinanze dei cimiteri; preferisce spesso gli argini delle strade meno frequentate, i ponti sopra i torrenti, i margini delle pozze di abbeveraggio del bestiame, i macigni isolati, i cespugli più folti, i bordi di un campo coltivato, i sentieri più accidentati e occultati dalla vegetazione.

Non lo incontri mai però sui crocevia (simboli della religione), mai nelle vicinanze di capitelli religiosi, mai nei pressi di chiese, chiesette e oratori, croci o altri segni della fede. E la creatura più ambigua e strana che si possa immaginare. Sparisce al primo accenno di un segno di croce, si volatilizza addirittura alle prime parole di una preghiera, di un’invocazione, di una giaculatoria.

Appare ai viventi quando meglio ritiene, dove meglio gli pare, in situazioni disperate — e allora diventa anche “altruista”, cosa piuttosto strana per un Orco —, come pure in occasioni della più stupida circostanza.

 

Non è sempre benevolo; spesso è burlone, capriccioso; qualche volta, come ho detto prima, diventa servizievole, spesso coraggioso, collaboratore, solidale. Ciò nonostante, il rovescio della medaglia lo dipinge anche come un essere dispettoso, spregevole, villano.

 

Nessun altro “personaggio” fantastico uscito dai racconti che ho potuto raccogliere conosce, meglio di lui, le debolezze delle sue vittime; nessuno spirito tra quelli della nostra cultura, meglio di lui, è più rapido ad abbandonare il campo delle sue bravate e delle sue apparizioni quando c’entra in qualche modo un seppur piccolo indizio di religiosità.

    Queste, in forma sintetica e generalizzata le caratteristiche dell’Orco che ho tratto dalle varie descrizioni di fatti e di ‘‘storie’’ raccolte in quegli anni di cui ho fatto cenno in apertura.


       E concludo rapidamente. Con una domanda di scusa, anzitutto. Ho raccontato, come avevo premesso nel sottotitolo, una ‘‘storia’’, con quei toni e quell’atmosfera che erano d’obbligo una volta, quando queste leggende erano raccontate ai ragazzini. Le considerazioni, quando sono state tali, e le domande che mi sono poste e che ho indirizzato anche al lettore, le giudico un incentivo, uno stimolo e un ‘‘progetto’’ eventuale per ulteriori ricerche e approfondimenti. Ho accettato di inviare al sito di www.sanmartinoba.it la descrizione di queste creature fantastiche per testimoniare un substrato di magia popolare in una ben determinata zona delle Prealpi veronesi e vicentine, legate tra loro da una comune etnia e da una comune civiltà, quella “cimbra”.

 

    E, a conferma delle mie ricerche e a quanto scrissi sopra, ecco qui alcune di quelle “storie” che andavano per la maggiore nei racconti delle nostre nonne e nelle serate dei “filò”, nelle stalle o nelle case davanti al fuoco che scoppiettava felice perché gli avevano … regalato un sòco da bruciare..

 

L'ORCO...UOMO

Nano o gigante che fosse, l’Orco era una essere fortissimo che si batteva per far ridiventar savie le persone prepotenti. Sembra quasi che avesse un compito educativo e si dedicasse ad atti di solidarietà. Sono queste prerogative dell’Orco che ho riscontrate a Sprea, a Campofontana, e a Selva di Progno. Ecco un esempio raccolto da Lina Roncari di Campofontana,  nel 1966.

 

« Quando sento parlare della località Nasselóche (in cimbro significa “buso del Nàsse - luogo bagnato, ndr) mi ricordo una storia che mi raccontava mia nonna. Un uomo della contrada Pelosi di Campofontana e della famiglia detta dei “Stiléti”, era cattivo e faceva del male alla gente; aveva la fidanzata in una contrada di Campo di Fuori. Una sera, tornando a casa, dopo essere stato a “filò” dalla “morósa”, sul dosso della Nasselóche incontrò un uomo, un giovane molto forte e robusto, che cominciò ad offenderlo. Botta e risposta, si azzuffarono e, a rotoloni, andarono a finire giù nel fondo della Nasselóche. Lo Stilétti, ormai sfinito, esclamò: — Dio mio, come sono ridotto!  Allora quel giovane robusto e forte mollò la stretta e sparì all’improvviso. E la gente assicura che quello era l’Orco che voleva dare una lezione al giovanotto cattivo »..

 

 

 

L'orco diventa un uomo altissimo

 e poi si trasforma in una enorme vampata di fuoco

 

disegno di A.Norsa

  

L'ORCO...CAVALLO

A Sprea e a Campofontana si raccontavano storie dell’Orco che si trasformava in cavallo o in altre cose. Una di queste leggende, raccolta da Claudio Bottacini di Sopra, racconta:

 

« Un uomo andava verso la sua stalla per governare il bestiame.. La stalla era molto lontana dall’abitazione. Fuori nevicava. Terminato il suo lavorio, si mise in strada per fare ritorno a casa, ma ad un tratto fu investito da una forte raffica di vento e neve che lo colpì al viso tanto da fargli perdere, per un attimo, la vista; ma nell’infuriare della bufera, vide venirgli incontro un bel cavallo nero. L’uomo, che teneva sempre con sé un coltello per tutte le necessità, lo tirò fuori e gli andò incontro, pronto difendersi. Ma, quando fece per alzare il coltello, il cavallo si drizzò sulle zampe posteriori e scomparve. Appena la bufera si calmò un attimo, poté vedere che il cavallo galoppava velocemente su nel cielo diretto verso mattina. Poi gli dissero che quello era l’Orco ».

 

Gina Dal Dosso di Selva di Progno, negli anni Sessanta, mi raccontò un’altra leggenda in cui l’Orco si trasformò in cavallo.

 

« Un giovanotto di Campofontana, tornando a casa dal mercato settimanale che si teneva il mercoledì a Badia Calavena, nelle vicinanze di Selva di Progno, dove cominciavano i scùrsoli per tornare al paese, vide in un fraticello lì vicino un bel cavallo che stava pascolando. Il giovanotto, pensando che per arrivare in modo migliore e più in fretta al suo paese, non ci fosse niente di meglio che saltar a cavallo del .. cavallo. Gli saltò in groppa e, tra sé e sé, pensò: — Ho trovato chi mi porta a casa senza far tanta fatica. E tutto andò liscio fino a quando arrivarono in cima alla montagna. Il cavallo, allora, diede un forte strattone alla briglia tanto da buttare il cavaliere a terra. Si trasformò subito in una gran fiammata di fuoco che si dileguò in un attimo dietro un altro monte. Quando raccontò la storia a casa sua gli assicurarono che quello era stato l’Orco ».

 

Un terzo raccontò simile me l’ha riferito Griso Costantino di Campofontana negli anni Sessanta.

 

« In contrada Grisi di Campofontana vivevano marito e moglie. Il marito esercitava il mestiere del carrettiere; quindi possedeva un cavallo e un carretto. La moglie, che si chiamava Marianna, invece, era una brava donna di casa. Dopo parecchi anni di questa vita a due, capitò che una sera, mentre il marito era lontano con cavallo e carretto per gli affari suoi, Marianna sentì scalpitare furiosamente un cavallo giù nel cortiletto, davanti alla sua casa. Dal rumore che provocavano i suoi zoccoli sul lastricato di pietra, Marianna capì che doveva trattarsi di un cavallo molto grosso, non certamente quello del marito che ormai conosceva in tutti i suoi tratti. Dopo un po’, stanca di star a sentire quello scalpitio, si girò dall’altra parte per tentar di dormire, non senza aver fatto prima un bel segno di Croce e di aver recitata la sua solita litania di preghiere. A quel punto, quella bestia, con i ferri degli zoccoli fece un fracasso tale che ne tremò tutta la casa. Poi tutto tornò tranquillo. Quando raccontò l’avventura, il marito le affermò che si era trattato dell’Orco ».

 

 

L'ORCO...FUOCO 

Abbiamo già letto la leggenda del ragazzo che vide il cavallo dileguarsi nel cielo in una vampata di fuoco. Con il termine “fuoco” intendo tutti i possibili e risaputi aspetti, piccoli o grandi, di fiamme, di fuoco, di vampate, eccetera. In questa serie di racconti includerei anche le trasformazioni dell’“Orco” in luci, vento, nuvole. Facciamo allora qualche esempio per confermare la teoria. Certo che non riuscirò evidentemente ad accontentare la gente di San Martino Buon Albergo con “storie” che si riferiscono alla montagna lessinica che abbiamo dietro le spalle. Ma, se il “sito internet” serve anche per far conoscere culture diverse da quelle locali, credo che a qualcuno sicuramente piacerà leggere queste memorie se non altro per divertirsi e per far paragoni con altre “civiltà” padane o non padane.

 

    Una sera un uomo di Sprea stava tornando a casa dai lavori nei campi. S’era fatta notte fonda ed egli allora accese la lanterna. Dopo un po’ di strada si accorse che la fiammella era diventata un omino rosso, rosso fuoco; dopo un altro po’ di tempo, l’omino ridiventò fiammella. Si stropicciò gli occhi allora per assicurarsi di non aver le traveggole.

    Dopo un altro pezzo di strada vide accanto a sé un’ombra con i corni lunghi; ma quella sparì quasi subito. Fece un altro tratta di strada verso casa e, stranamente, rivide l’ombra di un mostro, una specie di cavallo con la testa di un uomo. Spaventato si diede a correre fino a quando arrivò davanti ad un capitello della Madonna. Quell’ombra, allora, improvvisamente sparì in una spaventosa fiammata di fuoco e di fumo. Gli assicurarono che era stato l’Orco». 

 

(Raccontatami da Ernesto Anselmi di Sprea, anni Sessanta)

 

A Durlo ho raccolto un’altra storia di questo tipo che dice:

 

       « Un contadino, dovendo recarsi sui monti dove portava tutti i giorni il bestiame a pascolare, una bella mattina si accorse che davanti a lui, sul medesimo sentiero, stava camminando un’altra persona, la quale, man mano che procedeva per la strada, con un grosso bastone percuoteva rabbiosamente le piante più vicine all’argine e, ad ogni colpo, esse emettevano un lungo lamento. Il contadino, allora, lo rimproverò per quello che faceva alle piante. Ma lo sconosciuto scomparve nel cielo trasformandosi in una piccola nuvola nera che assomigliava a una strana bestia con la coda  lunga e biforcuta, forse un basilisco. Ma il contadino che non sapeva che cosa fosse un basilisco, quando arrivò a casa raccontò quello che gli era capitato e gli dissero che era stato l’Orco ».  

 

L'ORCO...BASTONE

In tutte le aree da me considerate  ho potuto costatare che  l’Orco il più delle volte si serve di un normalissimo bastone per far le sue bricconate. Bricconate che, in fondo in fondo, non sono nient’altro che bambinate stupide, innocenti, senza criterio. L’Orco, infatti, in questa zona della Lessinia che ho studiato io non si presenta mai come un essere malvagio.

 

Ecco un’altra “storia” che mi ha raccontata mia mamma, Angela Guidese, sempre negli anni Sessanta.

 

  « Un uomo della contrada Roncari di Campofontana una volta dovette recarsi alla malga Scorteghére sui Monti Lessini Centrali. Dopo essere passato per Giazza ed aver affrontata la dura salita delle “Gósse”, si inoltrò attraverso i pascoli dei Pàrpari. diretto alla malga. Essendo ancora molto il cammino da fare, a un certo punto raccolse da terra, per appoggiarsi,  un bastone, un ramo secco che si era staccato da una pianta. Ma più andava avanti e più quel bastone pesava, Stanco di portarsi dietro un peso che continuava ad aumentare, giunto nei pressi di una pozza, di quelle dove vanno ad abbeverarsi le mucche, ve lo buttò dentro accompagnando il gesto con una parolaccia. E subito, dal centro della pozza, vide alzarsi dritto in verticale il suo bastone che, sghignazzando, gli disse: — Hai visto? Te l’ho fatta! Mi hai portato fin qui. Era l’Orco, naturalmente ».

 

 

Un bastone, gettato in mezzo ad una pozza,

 diventa subito un "Orco"

 

disegno di A. Norsa

 

          « Una volta l’Orco a Selva di Progno si fece trovare lungo l’argine del sentiero da un montanaro che stava tornando a casa dal lavoro in un fagotto di tela bianca che conteneva altra biancheria. Il montanaro lo raccolse con un certo piacere e se lo portò fino vicino a casa, tribolando non poco, perché quel fardello continuava ad aumentare di peso e la strada era diventata piuttosto scoscesa e maldestra. Quando quel poveraccio decise di fermarsi un attimo a tirare il fiato, deposto l’involto lì vicino a sé, ebbe un forte sobbalzo, perché dal fardello uscì una gran vampata di fuoco che polverizzò tutto il contenuto e senza lasciar traccia di ceneri e di fumo. A casa, quando raccontò il fatto, gli risposero chiaro e tondo che era stato l’Orco ».

(Raccontata da Claudio Baldo di Sprea).

 

Infine, sul tema dell’Orco che si trasforna in fuoco, ecco un’ennesima versione di Gina dal Dosso di Selva di Progno (anni Sessanta).

 

       « Un giorno un ragazzo di un paese vicino al suo, passando per una strada che andava verso casa, vide appoggiato a un muro un bel bastone di frassino, ben lavorato e lustro. Lo prese in mano e, cammina cammina, si accorse che man mano che proseguiva sulla sua strada, il bastone si faceva sempre più pesante. Portò pazienza ancora per un po’, fino a quando cioè non fu più capace di portarlo. Allora lo gettò via, giù per un burrone, esclamando: — Ma va’ al diavolo! Il bastone, che altro non era che l’Orco, si trasformò in una grandissima fiammata e dirigendosi rapidamente verso il cielo gli disse: — Lifufù, lifufù, te l’ho fatta!. Lo spirito, trasformato in bastone, era stato astuto a farsi portare fino a quel punto ».

 

 

L'ORCO...ANATRA 

Nelle pagine precedenti abbiamo sentito raccontare “storie” dell’Orco che si trasforma in fuoco, in cavallo, in bastone, in bagaglio di roba ecc. Elencherò, adesso, alcune altre “storie” in cui l’Orco si trasforma in qualche animale da cortile, di quelli che tutti conoscono, oppure in un gigante, oppure ancora in una signorina, e via dicendo.

 

       Domenico Tornieri di Campofontana, che già conosciamo, mi raccontava negli anni Sessanta:

 

        «Da giovane avevo sentito raccontare che alla Nasselóche di notte si vedeva una stranissima e grossa anatra che correva dietro ai giovanotti … prepotenti, quando andavano a trovare la fidanzata nelle contrade di Campo di Fuori. I giovanotti buoni, invece, li lasciava passare senza far loro paura. Un giovanotto più bricconcello degli altri fu avvertito di stare attento, perché da quelle parti c’era e circolava l’Orco. Ciò nonostante lui si mise a ridere e a sfottere. Allorché una bella notte egli dovette passare da quel posto, gli comparve improvvisamente davanti un’anatra enorme che si mise ostinatamente a seguirlo. Il giovanotto tentò più volte di cacciarla via, ma quella si trasformava dapprima in un uomo piccolissimo, ma robustissimo, poi in un vero gigante che terrorizzava. Il giovane, a quella vista, fuggì gridando: — Non sarà mai detto che io passi ancora per quel posto! ».

 

 

L'Orco si trasforma in un gigante

 che fa scappare a casa il contadino

 

disegno di A. Norsa

 

L'ORCO...SIGNORINA 

Sintomatica e ricca di significato quest’altra leggenda che poteva uscire solo dai “filò” di Sprea. È anche l’unica versione in cui l’“Orco” esce da una fenditura nella roccia di un monte.

 

       «Un uomo, recatosi un giorno a falciare l’erba in un prato di sua proprietà piuttosto lontano da casa, durante una pausa del lavoro, vide uscire da una roccia un uomo con una gran barba, il quale si fermò a due passi da lui. – Cosa vuoi da me?, gli chiese il contadino. L’uomo con la barba non gli rispose, ma si trasformò immediatamente in una bella signorina, accattivante e cortese. Anche lei si fermò a fissare il falciatore che le rivolse la medesima domanda che fece all’uomo barbuto: — Che cosa vuoi da me?, senza però averne risposta alcuna. Il poveraccio, a quel punto, imboccò in fretta e furia la strada per casa, dove, giunto, raccontò l’accaduto e tutti sentenziarono che si trattava dell’Orco» (Raccontata da Renzo Corbellari di Sprea –Anni Sessanta). 

 

L'ORCO...QUERCIA 

          «Un giorno un giovanotto che era solito bestemmiare, anche per motivi futili, tornando a casa da un lungo viaggio, fu costretto ad attraversare un ponte sopra il torrente che scorreva nei pressi della sua contrada. Vicino al ponte di legno c’era una grande quercia come quelle che si vedono in giro per i boschi della nostra montagna, L’uomo aveva appena messo piede sul ponte che scivolò improvvisamente giù nel torrente; ma, prima ancora che toccasse l’acqua, la quercia con i suoi robusti rami si piegò giù, giù, fino a farsi prendere con le mani da quel poveraccio; quindi, raddrizzatasi piano piano, lo rimise a terra sano e salvo. Quella volta l’Orco era diventato generoso ».

(Raccontata da Ernesto Anselmi di Sprea – Anni Sessanta).

 

 

Storia …  del Basilisco e delle sue sembianze
 

 

Per non andar lontano dalla realtà, come ho fatto per altre favole della nostra Lessinia, questa volta ho voluto chiamare direttamente in causa il Basilisco con una “storia” documentata. Eccola.
 
Il “Basilisco” al capitello dei Sprontài
                        

Il termine “Sprontai”, così com’è pronunciato dalla gente a Campofontana, è una storpiatura del toponimo cimbro prundetàl che significa “vajo del torrente”. La zona del paese denominata con tale termine corrisponde sul terreno al territorio che abbraccia gli imbocchi delle strade per contrada Muschi e per contrada Flori, la strada delle cosiddette “Rive di Campo di Fuori”, costruita tra il 1915-1918, sulla quale insiste un capitello dedicato alla Madonna, e termina nel precipizio del cosiddetto “Cóvolo”, una parete rocciosa di una cinquantina di metri di altezza, sotto la quale si è venuto a formare un gran riparo naturale. 

Il toponimo conferma proprio la conformazione del terreno. Di lì, infatti, transita un vajo di scorrimento delle acque piovane che poi va a forgiare la parete del cóvolo. Anticamente il vajo serviva anche da mulattiera, da scorciatoia, da sentiero, insomma, che congiungeva Campofontana a Selva di Progno. Sentiero per il quale fu costretto a passare anche il vescovo Alberto Valier nel 1613, il 9 luglio. La cronaca del trasferimento da Campofontana a Selva di Progno, lungo appunto la strada del cóvolo, tra l’altro, recita che l’unica via comunis è stretta, precipitosa e dirupata. A metà strada, infatti, il presule è costretto a … desilire à Mula et pededentim, scendere dalla mula e proseguire a piedi per oltre un chilometro fino a Selva di Progno, tra macigni e sentieri stretti e difficili da transitare.[1]

Attorno al capitello la credenza popolare ha voluto creare anche una leggenda per giustificarne la posizione e motivarne la sistemazione; giustificazione che peraltro ha origini molto discordanti. Il capitello è stato costruito per “GRAZIA RICEVUTA”, e inoltre per mettere un segno alla via, come tanti altri capitelli e stele che fungevano da segnaletica. La leggenda è la seguente. Me l’ebbe a raccontare Domenico Tornieri negli anni Sessanta del secolo passato. 

«Quando ero bambino sentivo raccontare durante i “filò” che una volta la gente assicurava che in un bosco di Campo di Fuori, a Campofontana, c’era un uomo piccolo, piccolo, che era chiamato l’”Ometto”.  Una bella sera alcuni dissero: —Andiamo a vedere questo benedetto “Ometto”. Quando però furono nel bosco, videro due luci forti e abbaglianti e qualcuno sussurrò: — Ma quelle luci sono prodotte da qualche ceppo d’albero bagnato o marcio sotto i riflessi della luna; andiamo avanti. Invece, qualche attimo dopo, quelle luci scomparvero e tutti videro una grande ombra di cavallo, ma del cavallo videro solo la testa e le zampe. Poi il cavallo si trasformò in un basilisco, che aperse le ali e, volando via, andò a posarsi sopra i faggi del bosco degli “Sprontài”. In quel posto, allora gli abitanti delle contrade vicine, piantarono una croce che c’è tuttora e assicurano che ve l’hanno messa apposta per tenere lontano l’Orco e il Basilisco »..

 

Chi era il “Basilisco”

 

Non è la prima volta, questa, che si sente parlare del basilisco. Cos’era o, meglio ancora, chi era il Basilisco? Se prendi a salire lungo la strada che da contrada Cancellata di Selva di Progno sì inerpica verso Campofontana, la prima contrada che incontri sulla tua sinistra è Vanti, ubicata sul costone boscoso di un monte che si staglia nel cielo a schiena d’asino: nella toponomastica locale, che è “cimbra” anche in quei paraggi, quel dosso aguzzo e lungo viene chiamato Aisaróche  o anche Esaróche. I due termini che compongono il nome sarebbero: eitzan e loche (pascolo delle fiamme) oppure eitzan e roche (pascolo del fumo); più probabile la seconda spiegazione per un motivo di natura popolare.

A metà della valletta che costeggia l’Aisaróche si possono vedere ancora uno spiazzo pianeggiante, un posto di carbonaia in altre parole, e una specie di pozzo, che era una calcàra, una fornace in pratica dove si preparava la calce. Quando le due attività erano in piena funzione — di solito in autunno, ed io ebbi la fortuna una volta di essere presente alla benedizione solenne dell’accensione contemporanea della calcàra e della carbonara — da quel luogo che ancora adesso è chiamato “Calcàra”, si alzavano lunghe colonne di fumo che andavano a toccare la “schiena d’asino” dell’Aisaróche e davano l’impressione che ci fosse un essere ultraterreno che spaziasse ad ali spiegate sopra la valle. Da questo paventato sbigottimento interiore e dalla paura di incontrare quell’“essere” è nata, probabilmente, la leggenda del Basilisco che sprizzava fuoco, vapori e fiamme da tutte le aperture facciali.

Perché si chiama Basilisco? Giuseppe Rama, un bravo ricercatore e studioso del folklore veronese, ne ha trattato in lungo e in largo le sembianze storiche e scientifiche che ci permettono di abbozzarne i lineamenti più caratteristici presenti nella favolistica popolare veronese. Anzitutto si chiama così perché deriva dal greco βασιλισκός (basiliscòs) e da βασιλήυς (basilèus), che vuol dire piccolo re, regulus in latino, reuccio. Tanto per dire che era conosciuto anche antichissimamente, la Bibbia lo cita col nome di tsepha, simbolo del male, del peccato. Ed era considerato il re dei serpenti e di tutti gli esseri viventi ad eccezione dell’uomo; probabilmente fu lui a tentare Eva. L’iconografia cristiana mette accanto a San Giorgio e a Santa Margherita d’Antiochia un mostro, un “drago”, che altro poi non è che la bella copia del Basilisco.

De Plancy, nel suo “Dizionario infernale”, lo descrive: «Piccolo serpente lungo mezzo metro, conosciuto solo dagli antichi. Aveva due speroni, testa e cresta di gallo, ali, e una normale coda di serpente. Tanti affermano che nasce dall’uovo di una gallina, covato da un serpente o da un rospo…si ritiene che esso possa uccidere con lo sguardo… ». Queste alcune informazioni che ci vengono dall’antichità. Ma vediamo adesso a cosa ne dicono i veronesi.

A Vestenanova lo chiamano scurzón, un rettile cioè, ne più né meno, simile al carbonazzo, rettile che conosciamo bene tutti. 

Anche a Cazzano di Tramigna sembra essere un carbonasso, ma con delle piccole ali membranose, il capo adorno di una cresta carnosa di colore rosso fuoco, aggressivo se è disturbato.

A Castrano, nel Vicentino, è un serpente velenoso, di color rosso striato che vive nei boschi, con piccole ali, cresta di gallo, zampe, e in testa porta un rubino. A Cogollo è una piccola serpe di colore rossiccio, cresta di gallo, e due piccole zampe.

A Sant’Andrea, l’animale raggiunge dimensioni di circa 10-15 centimetri e insidia le persone con il suo “magnetismo”, che si crede lo renda capace di immobilizzare, di incantare in dialetto, le persone. Si rigenera da solo, quando, inavvertitamente, falciando il fieno, si decapita una vipera. Alcune memorie orali di montanari della Val Tanara di Sant’Andrea, raccolte direttamente da Giuseppe Rama, affermano: « Maria, me passà sora la testa un basilisco l’altro giorno che se el me ciapa el me cópa ». Un’altra persona risponde: - Ce ne sono in giro! Ne ho visti tanti sopra il fienile!

A Campofontana il basilico, come si è visto, aveva la sua dimora nel bosco dei Sprontài, ma appariva ai mortali soprattutto nella valle dell’Aisaróche e sprizzava fuoco, fiamme e vapori da tutte le aperture facciali contro i poveri e disarmati passanti.

A San Mauro di Saline era un essere simile a una lucertola che volava, aveva lo sguardo micidiale e con gli occhi immobilizzava la gente che diventava di sasso.

A Camposilvano il basilisco nasceva da un uovo di gallo (maschio) che deponeva ogni cento anni; aveva la cresta e assomigliava a un drago.

A Cerro il basilisco viveva in una spelùga (una cavità naturale) del Vaio del Posso, ed era fatto come un serpente, lungo mezzo metro, con una cresta rossa e ali membranose; emetteva un sibilo terrificante, era velenoso e spiccava .lunghi balzi aiutandosi con le sue zampette.    

Nella zona di Romagnano, tra Lumiago e il Vajo della Pissavacca, il basilisco era conosciuto come un serpente alato, velenoso, di color rosso vivo, con cresta di gallo e con un comportamento aggressivo, tanto che esiste il detto: «Te sì rabioso come on basilisco».

Nella zona di Erbezzo un signore anziano dice che nella curva prima di entrare in paese, incontrava spesso il basilisco fermo ad aspettarlo; aveva una cresta di gallo, corpo rossastro e due piccole ali come quelle di un pipistrello.

A Breonio-Fosse, vicino alla contrada Casaróle, vedevano spesso il basilisco; dalle descrizioni che ne hanno fatto le persone del luogo, prendeva le medesime sembianze già raccolte in altre zone della Lessinia: corpo rossastro, cresta di gallo, ali membranose, zampette corte, lunghezza di mezzo metro circa, sguardo micidiale, velenoso, capace di far lunghi balzi.

Per concludere. In realtà il Basilisco esiste in carne e ossa e viene identificato in un rettile dell’America tropicale appartenente all’ordine dei Sauri, famiglia degli Iguanidi, della lunghezza di 50-80 centimetri. Il maschio ha il capo ornato da una cresta di forma triangolare; un’altra cresta corre lungo tutto il dorso. Ha colore variabile che va dal verde al bruno-olivastro, una lunga coda, ma è innocuo.Vive di preferenza sugli alberi, si nutre di vegetali e d’insetti. 

Una pittrice veronese, Giulia Pianigiani, in conformità a tutte le informazioni raccolte, in un suo acquerello immagina un Basilisco che vola e che sprigiona fuoco dalla bocca.

 

 

Il Basilisco

 

disegno di A. Norsa

 



[1] - Il testo latino della relazione recita: … et continuando iter predictum et descendendo e montanea, propter difficultatem ipisius itineris et descensionis, idem illustrissimus dominus episcopus cum sua famiglia caoctus fuit  desilire a mula et pededentim ab ipsa montanea discendere, cun gravi difficultate, tum propter angustiam semitae, tum etiam propter multitudinem saxorum et longitudinem ipsius decsndionis, quae fuit circa dimidium miliare…

   

  

C'era una volta