Racconto
di,
Eddo Foroni
L’AIA
invece
era la parte centrale della corte. Tutta in mattoni rossi di cotto oppure di
cemento fatta solitamente a dorso d’asino (perché non si formassero
pozzanghere e altri motivi) ed era delimitata in ogni lato da un muricciolo
appena percettibile. Era dove si
batteva il grano prima che entrasse in “auge” la macchina trebbiatrice a
vapore (come il treno vaporiera) “la batidora” che faceva il lavoro
di decine di uomini ed ai primi tempi avversata perché sostituiva la manodopera
!! L’aia serviva anche per
collocarvi il granoturco, dopo trebbiato, che con una pala veniva buttato in aria
perché la polvere si spandesse oltre el “selese”, così era chiamata
l’aia.
In Giugno o Luglio conforme la
disponibilità della trebbiatrice, che era noleggiata dai vari agricoltori della
zona, si teneva la trebbiatura del grano. Era quasi una festa. Tutti
contribuivano alla bisogna. La vaporiera (forza motrice) era staccata dalla
macchina vera e propria che trebbiava e una gran ruota passava il movimento
dall’una all’altra parte a mezzo di una puleggia. Si infilavano i covoni
legati già sul campo nella mietitura, e usciva da una parte il grano che veniva
insaccato da lavoranti, e dall’altra la paglia che egualmente era trasformata
in balle. Il caldo della stagione faceva la sua parte e tutti sudatissimi e
generalmente scamiciati od a torso nudo si dissetavano a suon di “graspja”
che sarebbe l’ultimo ed infimo spremuto dell’uva allungato con acqua.
Sull’aia stazionava sempre qualche aggeggio agricolo, el “versor”
che era l’aratro o “l’erpego” per erpicare le zolle dopo
l’aratura. Non mancava certo qualche cane da guardia a catena con la sua
cuccia di legno e qualche gatto
randagio che solitamente veniva tenuto per cibarsi dei topi dei quali c’era
abbondanza…e dai bambini più scavezzacollo presi a calci. Ricordo anche che
addossato alle case coloniche fin verso la stalla c’erano fiori di Pasqua,
margherite di vari e violenti colori e qualche oleandro dai fiori rosati dei
quali mi attraeva il profumo acre.
A
delimitare la corte vi era da una parte una rete, una strada bianca e
lunga, un campo ed un fosso non molto largo e piuttosto limpido ove andavamo a
giocare con gli avannotti di rana o di pesciolini.
All’entrata della corte svettavano due pilastri di mattoni consunti dal
tempo con una cancellata che non veniva mai chiusa ed ai bordi della quale
cresceva l’erba alta.
Adiacente alla casa colonica menzionata vi era, sia il portico, che la stalla. Il portico era alto e con due grandi arcate, sormontato come tetto da grosse travi che si appoggiavano sui pilastri. Il tetto era di tegole ormai mezze rotte e una sua parte era coperta da lamiera perché le tegole se erano andate …. Sotto il portico vi era di tutto in grande disordine. Si può dire il ripostiglio di ogni cosa non più in uso e di quant’altro si eliminava.. Era anche il luogo ove si stendevano i panni nella stagione piovosa o invernale. Ai lati dei pilastri si potevano vedere gli attrezzi che più comunemente venivano usati: el “fero da segar”, la “roncola”, el “segasso”, el “stegagno” e quanto occorreva par attaccare le bestie al carro che immancabilmente era al coperto sotto il portico. La stalla era unita al portico da una porta larga che di solito era in ferro perché si temevano i furti di bestiame e per eventuali incendi sul “fenil” il fienile dove veniva accatastato sia il fieno che l’erba spagna per le bestie o la paglia del frumento che serviva per “el leto” in stalla alle bestie stesse.
Sempre a piano terra c’era un locale ove si allevavano i bachi da seta
che era una delle risorse finanziarie dei contadini specie per poter far la dote
alle figlie da marito. Era chiamata la stagione delle “galete”,
esclusivamente d’estate. Doveva impegnare in modo notevole nel periodo finale
della stagione quando i bachi, diventati grossi, mangiavano continuamente ad una
temperatura costante foglie di gelso “de morar” per poi essere
collocati sulle “arele” di canna palustre, a fascine messe in piedi
ad iniziare a costruire il meraviglioso bozzolo del color giallino della seta.
Nella stessa stanza poi in Novembre si collocavano i salami ricavati
della macellazione del “porsel” o “el porco” il maiale
arrivato anche ad un paio di
quintali. I salami, cotechini, morete (insaccati di sangue di maiale) e i “brigaldoli”
(grasso croccante) venivano per la conservazione attaccati in alto alle “stanghete”
pali tenuti con fili di ferro ai travi del soffitto.
Lo strutto invece era conservato in latte quadrate o in recipienti di cotto.
Questo
condimento era micidiale per il colesterolo, del quale erano affetti molti
uomini, che ancor in giovane età, soffrivano di paralisi e per curarli
si utilizzavano le “sanguete” sanguisughe di fosso, per risucchiare
dal loro corpo il "sangue grosso": un metodo antidiluviano,
arcaico.
La
stalla era stretta e lunga e poteva ospitare una ventina di animali, suddivisi
sia a destra che a sinistra. Vi era “la grepia” ove veniva alloggiata
l’erba spagna od il fieno, e in mezzo vi era una specie di avvallamento ove si
raccoglieva il letame delle bestie che veniva, unitamente al letto delle stesse
portato nel “luamar”, letamaio non lontano con una carriola. Le
bestie erano legate a catena, ma in modo che potessero avere movimenti atti a
farle coricare e riposare. Aleggiava sempre un acre odore in un caldo umido al
quale gli animali si sottraevano solamente quando venivano un paio di volte al
giorno portati all’esterno per l’abbeveraggio in un lungo recipiente di
cemento che stazionava in parte alla corte e riceveva acqua dal “sion”,
oppure quando c’era abbastanza acqua nel fossato non molto distante.
In
stalla si andava d’inverno per risparmiare la legna da ardere o le “sòche”
sul focolare, uniti possibilmente con le famiglie della corte e qualche volta
anche coi “morosi” delle ragazze in attesa del matrimonio. Il ritrovarsi
comunitariamente era motivo di raccontarsi gli avvenimenti, anche di altre
epoche da parte dei più anziani. Alla domenica si giocava alla tombola e gli
altri giorni si “scartossava” il granoturco, oppure si “spanociava”
la pannocchia: i grani, per intenderci, che si insaccavano e in seguito venivano
portati dal “molinar” per macinare e renderli in polenta. Il discorrere
d’inverno in stalla era chiamato “el filò” e i bambini prima di
andare a letto avevano modo di ascoltare a bocca aperta le storie di guerra dei
reduci: erano sempre quelle ma avevano una certa attrattiva e non
mancavano di…novità per questa povera gente…
Ricordo
che qualche volta salivo oltre il “reparto notte della casa colonica” in
granaio. Questo occupava l’intero sottotetto ed era come per il resto dei
piani a pavimentazione di assi . Le granaglie vi erano depositate o in sacchi
oppure ammucchiate, paradiso di tutti i topolini che passeggiavano
indisturbati…..
Ma
la corte era il regno degli animali da cortile, galline, pollastre, anatre dove
vi era il fosso e qualche bel “ oco” e “dindio”, tacchino,
con gli immancabili pulcini ad incrementare le razze. In qualche caso, e sempre
in parte al cortile, in un capanno di legno dove nelle gabbie vi erano grossi
conigli che, come è risaputo, proliferano senza tanti problemi.
Le donne di casa avevano l’incombenza di raccogliere giornalmente le
uova che le galline depositavano nei posti più disparati, ma preferibilmente nel pagliaio,
depositavano. Un paio di volte all’anno facevano i “caponi” ossia
ai galletti tagliavano con una operazione senza…anestesia gli attributi
maschili e così diventavano “castrati
e pollastri senza…sesso” Per fare la dote alle ragazze da marito era
consuetudine vendere galline e pollastrelle al “polinarol” un
individuo che arrivava in bicicletta con delle gabbie davanti e dietro alla
stessa, dove collocava i pennuti acquistati, sborsando quanto valevano.
A proposito dell’aia ove razzolavano le galline è da tener ben conto che le contadine temevano, come negli allevamenti di adesso, la “morìa” che era la malattia per la quale i pennuti non si dovevano più mangiare ma seppellire. Non vi era più quindi l’allegria di vedere le uova a Pasqua ben dipinte da fili colorati di lana e cotte assieme a erbe aromatiche o coloranti, ma c’era una certa disperazione perché, come ho già detto, si faceva conto su questi pennuti che erano fonte di guadagno: una “musina”, salvadanaio.
Mi vengono in mente un paio di aneddoti che mi ha confidato un mio amico col quale andavo a pescare. Era un tipo folkloristico e un po’ pazzerello e ne faceva d’ogni colore…..
Qualche volta che andava a pescare nel fosso vicino a qualche fattoria e non riusciva a prendere niente si rivolgeva all’aia ove razzolavano le gallinelle. Infilava all’amo qualche seme di granoturco e lo lanciava non visto sull’aia tra le gallinelle. Quando esse lo beccavano e ingoiavano il tutto, le tirava a se e le …portava a casa. Non so se qualche volta sia stato inseguito e malmenato…
Altre volte distribuiva semi di granoturco imbevuto di alcool. I capponi si ubriacavano e zigzagando di qua e di là, stramazzavano… Allora entrava ad arte il mariuolo che, convincendo le contadine che i pennuti avevano preso la “morìa”, le comprava a prezzo stracciato e,con mille ringraziamenti delle stesse, che diversamente avrebbero dovuto…seppellirle! Lui quando rinvenivano…le vendeva.
I
“ochi” invece si spellavano del morbido piumaggio e quando ve n’era
a sufficienza serviva per le federe del letto o per la trapunta dell’inverno.
In corte oltre a beccare granelli di semenza d’erba, sassolini, ecc.
le galline, vi erano i pulcini che specie d’estate venivano raccolti
nel “corgo” a rete per difenderli dal calare rapace della poiana che
volteggiava alta in attesa delle prede di dimensione ridotta.
Il
maiale poi acquistato al mercato ancora di taglia piccola veniva tenuto nel “porsil”
e ingrassato per bene con polenta, crusca e avanzi della cucina. Era
praticamente il companatico per tutto l’anno. Si macellava una mattina di
Novembre e durante tutto il giorno in quattro cinque persone esperte ricavavano
salami, cotechini, morette e col grasso, lo strutto che sostituiva l’olio nel
friggere.
I lavori in campagna
Erano molteplici. L’uomo si alzava di buon’ora, alle 4 e doveva
cominciare a mungere le vacche. Era un’operazione fatta a mano, non come
adesso che c’è la possibilità di mungerne molte alla volta. Si usava un ”sentarin”
rotondeggiante di legno con un piolo in mezzo che dava la possibilità di
portarselo dietro col secchio quando si passava ad un’altra bestia. El “pieto”
che era infuocato e grosso per aver divorato erba, si presentava turgido.
La
mammella dell’animale per mungerla veniva afferrata con dolce energia e si
faceva, maneggiando in basso ed in alto, arrivare il getto bianco nel secchio.
Dopo questa operazione si doveva fare il letto alle bestie e fare la pulizia
generale. Alle prime luci dell’alba, conforme la stagione, nei campi, o per la
semina o per il raccolto, fatta quasi sempre a “piè par tèra”…quando
c’era l’aratura si doveva attaccare due vacche o due bovi all’attrezzo. Le
vacche erano, essendo di sesso femminile chiamate con città come: Venezia,
Mantova, Parma, ecc.. i buoi invece
col terminale maschile: Torino, Milano, Trento e così via..
Ogni bestia conosceva i comandi come i contadini conoscevano per nome gli
animali. L’aratura era una operazione lunga, l’aratro era uno solo e non 4 o
5 come adesso con la forza dei trattori. Per arare un campo occorreva quasi un
giorno, non parliamo poi del segare l’erba col “fero da segar” col
solito gesto a largo raggio !! La
falce poi perdeva il filo e ci si doveva fermare, sedere per terra, piantare una
specie di cuneo sul quale si appoggiava la lama e con un martello ci si batteva
al limite ridonando il filo. Poi con una pietra scura si cercava di “sgualivar”
lo stesso. Altro lavoro era la
semina, una volta a mano a “sparpajar” la “somensa” con il
gesto tipico dei bei quadri o sculture del “buon seminatore”.
Ultimamente si era introdotta una seminatrice con tanti scomparti quanti i
solchi da seminare ed il chicco veniva depositato ogni qualche distanza
desiderata.
Verso
sera arrivava un carretto che prelevava il latte munto che nel frattempo era
stato immesso in un recipiente “el bidonsin” in cui aprendolo si potevano
osservare, si il latte, ma alla superficie almeno quattro dita di mosche che
avevano trovata ..brutta fine nel bianco nettare !
Alla
faccia dell’igiene… per fortuna poi veniva pastorizzato, ma una
volta……si aveva buona bocca !
D’inverno
i lavori erano di ripiego. Si “scalvava” col “stegagno” o
con la “roncola” le piante che durante l’anno erano cresciute con i
rami. Le piante che erano morte si dovevano levare fin dalle radici e allora
necessitava scavare enormi buche ed erano buone “sòche” per i “fogolari”,
Si lavorava a scavare i fossati irrigui alla campagna che le erbacce avevano
invaso. Si sfoltivano i rami dei “morari” e dei gelsi che erano preziosi
per il fogliame che nutriva i “cavaleri” bachi da seta allevati dalle
donna della famiglia. Ma “el
morar” non serviva solo per i bachi da seta per le sue foglie, era prezioso
anche per le “mòre”, i frutti sia bianchi che neri con i quali, raccolti e
levate le immancabili “forbese o sisòre” insetti con gli aculei a
forma di forbice, si mettevano a cuocere con un po’ di zucchero e scorza di
limone e si ricavava il “melèto” sorta di marmellata piuttosto
acquosa che veniva imbottigliata o messa in fiaschi, buona per far colazione con
la polenta…Le more non si ricavavano staccandole una ad una dall’albero ma
battendo i rami sotto dei quali si poneva un telo o un
vecchio…ombrello…(come per le olive).
C’erano delle Corti con aie grandissime. Erano quelle di latifondisti di un “certo spessore”, vale a dire campagne di molti campi ove erano necessarie mansioni di diverso tipo oltre a bracciantato.
Il padrone, che generalmente era un benestante che abitava da generazioni in città, comandava attraverso il castaldo che aveva la responsabilità di condurre da agronomo lo sfruttamento delle risorse terriere, far lavorare e pagare i dipendenti. Tra di essi c’era pure un carpentiere per i carriaggi e i finimenti delle bestie da traino o da aratura.
Poiché al padrone interessava solo che l’azienda gli fornisse una rendita, il potere del castaldo era assoluto: poteva multare, o pagare i dipendenti quanto voleva: se non erano contenti potevano andarsene, non era difficile sostituirli.
(Leggere “I Leori del socialismo” di Dino Coltro).
Dove i campi erano tenuti a riso c’era pure “el pescador” che apriva i fossati o li chiudeva per allagare le risaie, e ovviamente nelle stesse seminava il pesce: questi erano solitamente d’acqua dolce come carpe, gobbi e pesce gatto, che solleticavano …le gambe delle mondine immerse fino al ginocchio per la semina, la monda o la raccolta, circondate da più di qualche serpentello innocuo d’acqua.
In queste vaste campagne era indispensabile molto bracciantato per cui si vedevano il mattino presto capitare poveri lavoranti che stazionavano sotto il portico della stalla in attesa di essere chiamati per le varie mansioni e lavoravano a giornata. Qualcuno rimaneva purtroppo escluso e quindi per la sua famiglia vi erano privazioni…e i malcapitati tornavano alle povere case dove molte volte attendevano numerosi figlioli.
L’
ORTO o el BROLO Ogni
famiglia aveva nelle vicinanze della casa e quasi sempre a nord perché non
infierisse il sole d’estate il proprio orto ove coltivava la verdura
necessaria ad intercalare la carne di maiale o dei pennuti. Vi erano le “vanese”
d’insalata, di pomodori, di lattuga, di piselli, e non mancavano nemmeno le
zucche che erano, quelle buone, cucinate sia arrostendole oppure friggendole con
un po’ di zucchero sopra, le meno buone erano date al maiale.
Qualche
orto aveva alberi da frutto dove primeggiava il “figar” dai frutti
saporiti e pure albicocchi, meli, peri e quant’altro si poteva avere nello
spazio.
Ricordo
che quando andavo in vacanza in campagna dai nonni non era raro che dovessi
nell’afoso pomeriggio con altri giovani andare a “batar i bandoti”
per spaventare i merli che mangiavano la frutta matura e specialmente l’uva,
ma la frutta la mangiavamo…noi ragazzi…!!
Tralasciando le note tristi, era invece espressione di allegria il falò che “brusava la vècia”, foriera del come le falive delle fascine infiammate salivano in alto, nelle serata ancora fresca, della bontà o meno della stagione primaverile che stava per iniziare.
Ma, altro momento da non dimenticare era quello in autunno o di fine estate, la vendemmia. Frotte di contadini raccoglievano l’uva cantando le canzoni tramandate da decenni. Si mostava poi sull’aia in grossi tini e a piedi scalzi da giovanotti o da ragazzette previo lavarsi….per bene dalle ginocchia in giù. Si sentiva per l’aria un profumo inebriante, quello del mosto col quale si faceva all’istante “el sugolo” o “el brulè caldo”
Questa
lunga dissertazione sulla vita di un tempo, che sembra antidiluviana tanto sono
mutate repentinamente le epoche, potrebbe continuare per un bel po’, molto si
potrebbe ancora dire, ma penso di aver stancato…sufficientemente.
Scusate.
Eddo Foroni