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UNA   VOLTA

 

Racconto di,  Eddo Foroni

            Non di rado mi soffermo a pensare a quando, in tempo di vacanza, andavo dai nonni materni in campagna. Era nel ‘trenta, al tempo del fascismo quasi imperiale, e mi fermavo per un paio di mesi dopo le fatiche …scolastiche. Avevo allora 8 o 9 anni od appena iniziate le medie.

 

Erano mesi di svago, anche perché avevo uno zio, fratello di mia madre, di appena un anno più di me ed allora si giocava assieme ad altri ragazzini delle famiglie dei "laoranti" dei campi.

          Soffermarmi a quei tempi mi fa compiere un confronto con quanto sia cambiata in appena 65, 70 anni la vita di campagna. Il progresso ha fatto, come d’altronde in tutti i campi. un balzo impressionante tanto che se venisse al mondo un vecchio d’allora certamente rimarrebbe esterrefatto…  Non avrebbe mai pensato  che non si sarebbe più tagliata l’erba del prato con il “fero da segar”, la falce, e le pannocchie si sarebbero scartocciate già sul campo con una macchina prodigiosa che avrebbe insaccato il “formenton” e ben macinato il “canoto”: il fusto, da dar poi come mangime alle bestie !!!

        La vita di campagna allora era ben diversa, nemmeno da potersi paragonare a quella di adesso quando appena un paio di “agricoltori” (allora erano contadini) sono sufficienti, con i guanti per non rovinarsi la mani, a coltivare appezzamenti per i quali dovevano lavorare intere famiglie con figli numerosi… D’altronde oltre alla meccanizzazione, anche la fuga  dalle campagne in cerca di lavoro nelle industrie ha costretto i proprietari munirsi di quanto la tecnologia poteva offrire per parare anche la concorrenza.

   

LA  CORTE   -    L’ AIA  -  La CASA  COLONICA

    Pur se nato in campagna in un paesino della bassa veronese, pochi sono i miei ricordi di quei tempi perché approdato a Verona Città ad appena 4 o 5 anni, tuttavia rammento che la corte allora era vasta, cintata da una parte da rete e dall’altra da campi. Le case erano basse, ad un piano oltre al pian terreno nelle cascine dove andavo durante le vacanze. Erano con muri, quasi sempre "sgrostati" dal tempo, che lasciavano intravedere qualche colore nelle malte dove i sassi o i mattoni lasciavano spazio al color verde rame che si dava alla vigna che di solito sovrastava la porta d’ingresso che era in legno grezzo, vecchio e segnato dalle intemperie e che veniva chiusa da un “cadenasso” dall’interno, ed era quasi sempre, si può dire, inutile perché nessuno rubava in casa. Si poteva tener spalancata la porta anche di notte che non si sarebbe corso pericolo di furto, Si rubavano solo le galline nel pollaio, e per fame !! allora….

     Quasi sempre le finestre avevano una rete fittissima quale “moscarola” per non far entrare in casa l’insetto che era allora, data la vicinanza con la stalla, molto prolifico…La porta di entrata quindi aveva una tenda a cascata che si spartiva per poter entrare. Lo scopo era appunto quello di fare in modo che le mosche se ne stessero gran parte fuori. Ma purtroppo ve n’erano in gran numero anche in cucina e quindi si usava la carta moschicida per accalappiarle e questa dopo un paio d’ore era zeppa…annerita…Ma c’era  anche la vera e propria ”moscarola” di vetro, un oggetto a doppio fondo dove le mosche, dopo entrate,non potevano più uscire, si…annegavano in ammollo…

   La parte sovrastante la cucina era il “reparto notte” dove vi era la fabbrica dei ”buteleti” su lettoni che parevano piazze d’armi, alti quasi un metro con materassi di “pena de oco o de galina” e lenzuola grezze che a chi aveva la pelle delicata (quelli che vi entravano no di certo…) potevano far venire le vesciche!   Di solito però questi erano i letti ”dei sposi” che peraltro avevano una numerosa prole che invece dormiva per terra su materassi fatti con sacchi di juta (quelli del formenton delle pannocchie) imbottiti non di soffici penne d’oca ma di “scartossi” del granoturco.  Siccome era indispensabile a metà della notte recarsi in corte per la bisogna del “pipì” è immaginabile il rumore che potevano fare i passi a scavalcare tutti i fratelli se uno era in mezzo !!  Ma non si svegliava nessuno perché si dormiva” dalla grossa” dopo una giornata di lavoro nei campi.

      La camera era proprio sopra la cucina ed il pavimento sempre di assi di legno con tanto di buchi dei nodi attraverso i quali si poteva osservare quello che facevano i “morosi” quando una figlia di casa la ”discorea” con qualcuno del paese o qualche ”foresto”, di altro paese limitrofo, conosciuto durante la Sagra del Patrono. Era risaputo che i Parroci organizzavano le Sagre o le caldeggiavano perché davano modo alle ragazze di non accasarsi con consanguinei venendo i giovani da fuori.   Le “spose” portavano in dote un certo numero di lenzuola e federe per i guanciali perché si sporcavano con maggior frequenza dato il lavoro dei campi, e allora non c’erano le docce con la comodità di adesso e la biancheria si poteva lavare solo due o tre volte l’anno facendo la “lissia”. Era un gran bucato che si teneva anche in modo comunitario  con altre famiglie. C'era un grandissimo paiolo con acqua bollente sulla quale si versava la cenere del camino più volte e dopo una bollitura solenne si risciacquavano "le robe" al fosso che solitamente era nelle vicinanze. Questa funzione si teneva nella corte e praticamente sull’aia dove si batteva il frumento.

Si potevano quindi osservare distese di lenzuola bianchissime per centinaia di metri su corde tenute alte da pali di legno nei campi vicini casa. Era uno spettacolo bellissimo quanto inconsueto.

     Nella camera non c’erano i servizi igienici. Ci si lavava in un catino tenuto ad altezza di busto da un treppiede metallico, poi il contenuto veniva buttato dalla…finestra in corte.

I servizi erano invece, e per tutti due i sessi, in corte, in uno speciale gabbiotto oppure in un ambiente di muratura con una porta che veniva chiusa alla bisogna avente una finestrella ove si poteva osservare se era occupato… e a …caduta libera.. sul letamaio delle bestie. Il tutto alla turca e tutt’al più con un paio di assi dove si appoggiava il sedere, questo per i più anziani…

 

     Il bagno era un lusso e solo per i più giovani. Ci si lavava piedi, gambe e busto nel fosso vicino oppure si prendeva la bicicletta e si andava al fiume che nel mio caso era il Tion o il Tartaro. Ricordo che mio nonno, che allora non era anziano, si tuffava in  un “bugno” come lo chiamava lui, che era una specie di profonda buca, conseguenza di un fosso largo e pulito.

   

Tornando a parlare della camera si deve tener conto che la pavimentazione era sorretta sempre da travi, che essendo di vecchia data, erano “caroladi” dalle termiti e si sentiva anche col silenzio della notte il rumore delle loro mandibole oltre al fruscio delle zampine di numerose "moreciole" che vi trovavano le loro…dimore.  Non ci si spaventava comunque se qualche topolino attraversava per il lungo tutto l’accampamento…dei bambini che stavano dormendo. D’inverno la temperatura era micidiale e la tazza d’acqua che ci si portava sul comodino, il più delle volte, ghiacciava e per usarla si doveva romperne il ghiaccio.

    

Il camino della cucina sottostante non dava sufficiente calore al “reparto notte”  e quindi si doveva essere “imbaccuccati” per non prendersi una polmonite. Per riscaldare il letto si infilava sotto le coltri la “monega”, la monaca per i più. Era una specie di aggeggio fatto di legno e latta a mò di slitta ove nel mezzo si poneva una “fogara” o “preo” (vaso in terracotta) con dentro braci rosse infuocate che riscaldavano il tutto fino a che si andava a letto. Qualche volta si bruciavano le lenzuola.

    Le pareti della stanza da letto erano tappezzate,  dove non c’era l’intonaco che cadeva, da una fila di Santi e sulla lettiera (si chiamava così) un quadro della Madonna col San Giuseppe ed il Bambinello, con a fianco l’acquasantiera che serviva per il segno della Croce, immancabile prima di coricarsi con una preghiera di rito a San Giuseppe Patrono della buona morte!

   

Dalla cucina al piano camere sovrastante si saliva esclusivamente a mezzo di una scala a gradini di legno che era solitamente irta e con uno scorrimano lucidato da innumerevoli mani passate per generazioni su di esso, i gradini scricchiolavano al posarsi dei piedi…

    Oltre la cucina vi era sempre il secchiaio, “el seciar”. Questo era di pietra ed inclinato perché l’acqua scorresse verso il foro che era chiuso da un “cocon” di ”mugoloto” (di pannocchia di granoturco) oppure da un pezzo di legno fatto a cuneo.   L’acqua era una specie di lusso. Non vi era l’acqua corrente con il rubinetto, si attingeva solamente per mezzo del pozzo in mezzo alla corte oppure dal “sion” pompa idraulica da manovrare avanti ed indietro che richiamava l’acqua dalla profondità della falda. Era un lavoro faticoso e mi ricordo che quando la Contessa faceva il bagno si doveva prelevare l’acqua occorrente manovrando questa leva avanti ed indietro per una buona mezz’ora…. Sul secchiaio facevano bella mostra una fila di secchi lucidissimi pieni di acqua che si prelevava per bere con un “calsirel” di rame, mestolo ricurvo in alto per attaccarlo nuovamente dopo l’uso ad un chiodo. Bella mostra facevano anche i “paroi” a fondo rotondeggiante con i quali si faceva la polenta alla sera immancabilmente, ed erano di rame. Venivano attaccati alla catena nel mezzo del focolare (cadena del fogolar) e qui dopo che l’acqua bolliva si metteva la polenta a cuocere girando il legno (specie di remo) fino alla cottura. Poi si versava con un gesto repentino e veloce, quanto alla pratica, sulla “panara” di legno rotondeggiante; poi levigata per bene con una paletta di legno, e appena un po’ rassodata, tagliata con un filo di réfe (filo di canapa) a fette. (romanzi gialli ..!!) Era il pane dei poveri che con l’eccessivo uso diventavano pellagrosi…

     La tavola era di conseguenza lunga e larga in quanto le famiglie erano assai numerose che nel caso di chi scrive quando il mio bisnonno si sedeva a tavola di sera aveva 32 commensali. Moglie, figli, figlie e nipoti…tutti rimanevano dopo il matrimonio in famiglia. Era patriarcale !!   Le sedie erano di rami d’albero senza la scorza ai quali erano stati fatti dei fori con la “trivela” e infissi dei pioli per lavorarvi la parte più importante che era di “balza” pianta palustre intrecciata. Era un lavoro che faceva “l’impajador de careghe” ed in verità era un artista, e ancora adesso impagliano sedie di pregio.

     Attaccato con quattro chiodi e bene in mostra c’era per ogni annata “El Poiana Magiore” che era un calendario dove si prevedeva il tempo, le lunazioni, i tempi della semina e mille altre diavolerie che erano più o meno credute in quanto quasi sempre …”sballate”… Non mancava mai un quadro della Madonna e un San Luigi o a scelta S. Antonio da Padova col bambino in braccio e un “gilio” per la sua festa.

    Non dappertutto arrivava la luce elettrica (non corrente, chissà perché..)  Dove c’erano i fili della stessa, erano fermati per bene, in giro per i locali, da speciali aggeggi con chiodi in porcellana e gli interruttori erano non a pulsante ma sempre in porcellana che si giravano in senso orario. Le lampadine erano solitamente assai fioche per evitare lo sperpero. Era una novità assoluta e destava sorpresa anche perché fino a qualche anno addietro si usava solo la lanterna a olio o a petrolio. La lanterna per la cucina dove ci si soffermava la sera prima di andare in stalla od a letto, ed era realmente di bellissima fattura, appesa nel mezzo della tavolata al trave centrale e si poteva regolare il volume della luce, sempre però con parsimonia perché il petrolio costava…Si andava a letto però solo al lume di candela.

     A fianco della cucina, una stanza più piccola che era “el tinel”, il salotto bene, per intenderci, che era inibito ai bambini perché doveva essere sempre in ordine per quando fosse arrivato a far visita un parente o una persona importante. Il pavimento non era di mattoni come in cucina ma di assi e qualche volta vi si dava la cera perché fosse” lustro”. Non essendo molto usato le pareti erano di un bianco di calcina quasi intatto. Vi erano due o tre sedie imbottite con ad un lato una spece di “sofà” di velluto stinto, in mezzo alla stanza un tavolo di piccole dimensioni con un centro ad uncinetto fatto dalla nonna della nonna… e una credenza con le “portele de vero” che lasciavano in vista le “chicare e la cogoma” del caffè e altri suppellettili buoni come i “cuciari e pironi con le posàde” che non erano mai state lavate con el “sabion”, la sabbia a mo di detersivo…Su di un “casson” una cassapanca ove vi erano tenute le lenzuola ben stirate faceva bella mostra una “gondoleta de perline colorate” ricordo dell’unica volta che con la Parrocchia si era andati a Venezia. Ai muri non mancava mai il ritratto in grande formato dei nonni o dei padri in coppia fotografati sempre ben seri, lui col cappello in testa e lei con “el cucugnel de cavèi” dietro la nuca. La coppia doveva avere si e no trent’anni ma dal modo di vestire potevano dimostrarne almeno oltre i cinquanta. Immancabilmente dopo il matrimonio le donne erano vestite di scuro, quasi come ora le nostre smaliziate ragazze che sono si vestite di nero ma con l’ombelico in vista…C’era anche “el cantonal” mobiletto d’angolo dove non c’era quasi mai nulla e li vicino un quadripiede (si dice così ?) alto quasi come una persona con sopra un coprivaso rotondeggiante di ottone, lucidissimo con dentro un vaso di foglione senza fiore. I fiori invece erano in uno scompartimento dello stesso quadripiede più in basso, infilati dentro un bossolo sempre in ottone lucidato di un proiettile della prima guerra mondiale lavorato a dovere, fiori di carta colorata crespata…

       L’ultima cosa che bisognava osservare era una madonnina alta poco più di una spanna, sempre comperata come ricordo ad una gita in un Santuario, e che era fosforescente di notte.

 

 

L’AIA  invece era la parte centrale della corte. Tutta in mattoni rossi di cotto oppure di cemento fatta solitamente a dorso d’asino (perché non si formassero pozzanghere e altri motivi) ed era delimitata in ogni lato da un muricciolo appena percettibile.  Era dove si batteva il grano prima che entrasse in “auge” la macchina trebbiatrice a vapore (come il treno vaporiera) “la batidora” che faceva il lavoro di decine di uomini ed ai primi tempi avversata perché sostituiva la manodopera !!  L’aia serviva anche per collocarvi il granoturco, dopo trebbiato, che con una pala veniva buttato in aria perché la polvere si spandesse oltre el “selese”, così era chiamata l’aia.

   In Giugno o Luglio conforme la disponibilità della trebbiatrice, che era noleggiata dai vari agricoltori della zona, si teneva la trebbiatura del grano. Era quasi una festa. Tutti contribuivano alla bisogna. La vaporiera (forza motrice) era staccata dalla macchina vera e propria che trebbiava e una gran ruota passava il movimento dall’una all’altra parte a mezzo di una puleggia. Si infilavano i covoni legati già sul campo nella mietitura, e usciva da una parte il grano che veniva insaccato da lavoranti, e dall’altra la paglia che egualmente era trasformata in balle. Il caldo della stagione faceva la sua parte e tutti sudatissimi e generalmente scamiciati od a torso nudo si dissetavano a suon di “graspja”  che sarebbe l’ultimo ed infimo spremuto dell’uva allungato con acqua. Sull’aia stazionava sempre qualche aggeggio agricolo, el “versor” che era l’aratro o “l’erpego” per erpicare le zolle dopo l’aratura. Non mancava certo qualche cane da guardia a catena con la sua cuccia  di legno e qualche gatto randagio che solitamente veniva tenuto per cibarsi dei topi dei quali c’era abbondanza…e dai bambini più scavezzacollo presi a calci. Ricordo anche che addossato alle case coloniche fin verso la stalla c’erano fiori di Pasqua, margherite di vari e violenti colori e qualche oleandro dai fiori rosati dei quali mi attraeva il profumo acre.

       A  delimitare la corte vi era da una parte una rete, una strada bianca e lunga, un campo ed un fosso non molto largo e piuttosto limpido ove andavamo a giocare con gli avannotti di rana o di pesciolini.  All’entrata della corte svettavano due pilastri di mattoni consunti dal tempo con una cancellata che non veniva mai chiusa ed ai bordi della quale cresceva l’erba alta.

     Adiacente alla casa colonica menzionata vi era, sia il portico, che la stalla. Il portico era alto e con due grandi arcate, sormontato come tetto da grosse travi che si appoggiavano sui pilastri. Il tetto era di tegole ormai mezze rotte e una sua parte era coperta da lamiera perché le tegole se erano andate …. Sotto il portico vi era di tutto in grande disordine. Si può dire il ripostiglio di ogni cosa non più in uso e di quant’altro si eliminava.. Era anche il luogo ove si stendevano i panni nella stagione piovosa o invernale. Ai lati dei pilastri si potevano vedere gli attrezzi che più comunemente venivano usati: el “fero da segar”, la “roncola”, el “segasso”, el “stegagno” e quanto occorreva par attaccare le bestie al carro che immancabilmente era al coperto sotto il portico. La stalla era unita al portico da una porta larga che di solito era in ferro perché si temevano i furti di bestiame e per eventuali incendi sul “fenil” il fienile dove veniva accatastato sia il fieno che l’erba spagna per le bestie o la paglia del frumento che serviva per “el leto” in stalla alle bestie stesse.

    Sempre a piano terra c’era un locale ove si allevavano i bachi da seta che era una delle risorse finanziarie dei contadini specie per poter far la dote alle figlie da marito. Era chiamata la stagione delle “galete”, esclusivamente d’estate. Doveva impegnare in modo notevole nel periodo finale della stagione quando i bachi, diventati grossi, mangiavano continuamente ad una temperatura costante foglie di gelso “de morar” per poi essere collocati sulle “arele” di canna palustre, a fascine messe in piedi ad iniziare a costruire il meraviglioso bozzolo del color giallino della seta.   Nella stessa stanza poi in Novembre si collocavano i salami ricavati della macellazione del “porsel” o “el porco” il maiale arrivato anche  ad un paio di quintali. I salami, cotechini, morete (insaccati di sangue di maiale) e i “brigaldoli” (grasso croccante) venivano per la conservazione attaccati in alto alle “stanghete” pali tenuti con fili di ferro ai travi del soffitto.

    Lo strutto invece era conservato in latte quadrate o in recipienti di cotto. 

 

    Questo condimento era micidiale per il colesterolo, del quale erano affetti molti uomini, che ancor in giovane età, soffrivano di paralisi e per curarli si utilizzavano le “sanguete” sanguisughe di fosso, per risucchiare dal loro corpo il "sangue grosso":  un metodo antidiluviano, arcaico.

     La stalla era stretta e lunga e poteva ospitare una ventina di animali, suddivisi sia a destra che a sinistra. Vi era “la grepia” ove veniva alloggiata l’erba spagna od il fieno, e in mezzo vi era una specie di avvallamento ove si raccoglieva il letame delle bestie che veniva, unitamente al letto delle stesse portato nel “luamar”, letamaio non lontano con una carriola. Le bestie erano legate a catena, ma in modo che potessero avere movimenti atti a farle coricare e riposare. Aleggiava sempre un acre odore in un caldo umido al quale gli animali si sottraevano solamente quando venivano un paio di volte al giorno portati all’esterno per l’abbeveraggio in un lungo recipiente di cemento che stazionava in parte alla corte e riceveva acqua dal “sion”, oppure quando c’era abbastanza acqua nel fossato non molto distante.

    In stalla si andava d’inverno per risparmiare la legna da ardere o le “sòche” sul focolare, uniti possibilmente con le famiglie della corte e qualche volta anche coi “morosi” delle ragazze in attesa del matrimonio. Il ritrovarsi comunitariamente era motivo di raccontarsi gli avvenimenti, anche di altre epoche da parte dei più anziani. Alla domenica si giocava alla tombola e gli altri giorni si “scartossava” il granoturco, oppure si “spanociava” la pannocchia: i grani, per intenderci, che si insaccavano e in seguito venivano portati dal “molinar” per macinare e renderli in polenta. Il discorrere d’inverno in stalla era chiamato “el filò” e i bambini prima di andare a letto avevano modo di ascoltare a bocca aperta le storie di guerra dei reduci: erano sempre quelle ma avevano una certa attrattiva e non mancavano di…novità per questa povera gente…

     Ricordo che qualche volta salivo oltre il “reparto notte della casa colonica” in granaio. Questo occupava l’intero sottotetto ed era come per il resto dei piani a pavimentazione di assi . Le granaglie vi erano depositate o in sacchi oppure ammucchiate, paradiso di tutti i topolini che passeggiavano indisturbati…..

     Ma la corte era il regno degli animali da cortile, galline, pollastre, anatre dove vi era il fosso e qualche bel “ oco” e “dindio”, tacchino, con gli immancabili pulcini ad incrementare le razze. In qualche caso, e sempre in parte al cortile, in un capanno di legno dove nelle gabbie vi erano grossi conigli che, come è risaputo, proliferano senza tanti problemi.   Le donne di casa avevano l’incombenza di raccogliere giornalmente le uova che le galline depositavano nei posti più disparati, ma preferibilmente nel pagliaio, depositavano. Un paio di volte all’anno facevano i “caponi” ossia ai galletti tagliavano con una operazione senza…anestesia gli attributi maschili e così diventavano  “castrati e pollastri senza…sesso” Per fare la dote alle ragazze da marito era consuetudine vendere galline e pollastrelle al “polinarol” un individuo che arrivava in bicicletta con delle gabbie davanti e dietro alla stessa, dove collocava i pennuti acquistati, sborsando quanto valevano.

 

    A proposito dell’aia ove razzolavano le galline è da tener ben conto che le contadine temevano, come negli allevamenti di adesso, la “morìa” che era la malattia per la quale i pennuti non si dovevano più mangiare ma seppellire. Non vi era più quindi l’allegria di vedere le uova a Pasqua ben dipinte da fili colorati di lana e cotte assieme a erbe aromatiche o coloranti, ma c’era una certa disperazione perché, come ho già detto, si faceva conto su questi pennuti che erano fonte di guadagno: una “musina”, salvadanaio.

  

    Mi vengono in mente un paio di aneddoti che mi ha confidato un mio amico col quale andavo a pescare. Era un tipo folkloristico e un po’ pazzerello e ne faceva d’ogni colore…..

 

    Qualche volta che andava a pescare nel fosso vicino a qualche fattoria e non riusciva a prendere niente si rivolgeva all’aia ove razzolavano le gallinelle. Infilava all’amo qualche seme di granoturco e lo lanciava non visto sull’aia tra le gallinelle. Quando esse lo beccavano e ingoiavano il tutto, le tirava a se e le …portava a casa.  Non so se qualche volta sia stato inseguito e malmenato…

 

    Altre volte distribuiva semi di granoturco imbevuto di alcool. I capponi si ubriacavano e zigzagando di qua e di là, stramazzavano… Allora entrava ad arte il mariuolo che, convincendo le contadine che i pennuti avevano preso la “morìa”, le comprava a prezzo stracciato e,con mille ringraziamenti delle stesse, che diversamente avrebbero dovuto…seppellirle! Lui quando rinvenivano…le vendeva.

 

    I ochi” invece si spellavano del morbido piumaggio e quando ve n’era a sufficienza serviva per le federe del letto o per la trapunta dell’inverno.  In corte oltre a beccare granelli di semenza d’erba, sassolini, ecc.  le galline, vi erano i pulcini che specie d’estate venivano raccolti nel “corgo” a rete per difenderli dal calare rapace della poiana che volteggiava alta in attesa delle prede di dimensione ridotta.

     Il maiale poi acquistato al mercato ancora di taglia piccola veniva tenuto nel “porsil” e ingrassato per bene con polenta, crusca e avanzi della cucina. Era praticamente il companatico per tutto l’anno. Si macellava una mattina di Novembre e durante tutto il giorno in quattro cinque persone esperte ricavavano salami, cotechini, morette e col grasso, lo strutto che sostituiva l’olio nel friggere.

 

   I lavori in campagna  Erano molteplici. L’uomo si alzava di buon’ora, alle 4 e doveva cominciare a mungere le vacche. Era un’operazione fatta a mano, non come adesso che c’è la possibilità di mungerne molte alla volta. Si usava un ”sentarin” rotondeggiante di legno con un piolo in mezzo che dava la possibilità di portarselo dietro col secchio quando si passava ad un’altra bestia. El “pieto” che era infuocato e grosso per aver divorato erba, si presentava turgido.

La mammella dell’animale per mungerla veniva afferrata con dolce energia e si faceva, maneggiando in basso ed in alto, arrivare il getto bianco nel secchio. Dopo questa operazione si doveva fare il letto alle bestie e fare la pulizia generale. Alle prime luci dell’alba, conforme la stagione, nei campi, o per la semina o per il raccolto, fatta quasi sempre a “piè par tèra”…quando c’era l’aratura si doveva attaccare due vacche o due bovi all’attrezzo. Le vacche erano, essendo di sesso femminile chiamate con città come: Venezia, Mantova, Parma, ecc..  i buoi invece col terminale maschile: Torino, Milano, Trento e così via..  Ogni bestia conosceva i comandi come i contadini conoscevano per nome gli animali. L’aratura era una operazione lunga, l’aratro era uno solo e non 4 o 5 come adesso con la forza dei trattori. Per arare un campo occorreva quasi un giorno, non parliamo poi del segare l’erba col “fero da segar” col solito gesto a largo raggio !!  La falce poi perdeva il filo e ci si doveva fermare, sedere per terra, piantare una specie di cuneo sul quale si appoggiava la lama e con un martello ci si batteva al limite ridonando il filo. Poi con una pietra scura si cercava di “sgualivar” lo stesso.  Altro lavoro era la semina, una volta a mano a “sparpajar” la “somensa” con il gesto tipico dei bei quadri o sculture del “buon seminatore”. Ultimamente si era introdotta una seminatrice con tanti scomparti quanti i solchi da seminare ed il chicco veniva depositato ogni qualche distanza desiderata.

     Verso sera arrivava un carretto che prelevava il latte munto che nel frattempo era stato immesso in un recipiente “el bidonsin” in cui aprendolo si potevano osservare, si il latte, ma alla superficie almeno quattro dita di mosche che avevano trovata ..brutta fine nel bianco nettare !

Alla faccia dell’igiene… per fortuna poi veniva pastorizzato, ma una volta……si aveva buona bocca !

     D’inverno i lavori erano di ripiego. Si “scalvava” col “stegagno” o con la “roncola” le piante che durante l’anno erano cresciute con i rami. Le piante che erano morte si dovevano levare fin dalle radici e allora necessitava scavare enormi buche ed erano buone “sòche” per i “fogolari”, Si lavorava a scavare i fossati irrigui alla campagna che le erbacce avevano invaso. Si sfoltivano i rami dei “morari” e dei gelsi che erano preziosi per il fogliame che nutriva i “cavaleri” bachi da seta allevati dalle donna della famiglia.  Ma “el morar” non serviva solo per i bachi da seta per le sue foglie, era prezioso anche per le “mòre”, i frutti sia bianchi che neri con i quali, raccolti e levate le immancabili “forbese o sisòre” insetti con gli aculei a forma di forbice, si mettevano a cuocere con un po’ di zucchero e scorza di limone e si ricavava il “melèto” sorta di marmellata piuttosto acquosa che veniva imbottigliata o messa in fiaschi, buona per far colazione con la polenta…Le more non si ricavavano staccandole una ad una dall’albero ma battendo i rami sotto dei quali si poneva un telo o un vecchio…ombrello…(come per le olive).

 

    C’erano delle Corti con aie grandissime. Erano quelle di latifondisti di un “certo spessore”, vale a dire campagne  di molti campi ove erano necessarie mansioni di diverso tipo oltre a bracciantato.

     

    Il padrone, che generalmente era un benestante che abitava da generazioni in città, comandava attraverso il castaldo che aveva la responsabilità di condurre da agronomo lo sfruttamento delle risorse terriere, far lavorare e pagare i dipendenti. Tra di essi c’era pure un carpentiere per i carriaggi e i finimenti delle bestie da traino o da aratura.

    Poiché al padrone interessava solo che l’azienda gli fornisse una rendita, il potere del castaldo era assoluto: poteva multare, o pagare i dipendenti quanto voleva: se non erano contenti potevano andarsene, non era difficile sostituirli.

(Leggere “I Leori del socialismo” di Dino Coltro).

 

    Dove i campi erano tenuti a riso c’era pure “el pescador” che apriva i fossati o li chiudeva per allagare le risaie, e ovviamente nelle stesse seminava il pesce: questi erano solitamente d’acqua dolce come carpe, gobbi e pesce gatto, che solleticavano …le gambe delle mondine immerse fino al ginocchio per la semina, la monda o la raccolta, circondate da più di qualche serpentello innocuo d’acqua.

    In queste vaste campagne era indispensabile molto bracciantato per cui si vedevano il mattino presto capitare poveri lavoranti che stazionavano sotto il portico della stalla in attesa di essere chiamati per le varie mansioni e lavoravano a giornata. Qualcuno rimaneva purtroppo escluso e quindi per la sua famiglia vi erano privazioni…e i malcapitati tornavano alle povere case dove molte volte attendevano numerosi figlioli.

 

     L’ ORTO o el BROLO   Ogni famiglia aveva nelle vicinanze della casa e quasi sempre a nord perché non infierisse il sole d’estate il proprio orto ove coltivava la verdura necessaria ad intercalare la carne di maiale o dei pennuti. Vi erano le “vanese” d’insalata, di pomodori, di lattuga, di piselli, e non mancavano nemmeno le zucche che erano, quelle buone, cucinate sia arrostendole oppure friggendole con un po’ di zucchero sopra, le meno buone erano date al maiale.

Qualche orto aveva alberi da frutto dove primeggiava il “figar” dai frutti saporiti e pure albicocchi, meli, peri e quant’altro si poteva avere nello spazio.

Ricordo che quando andavo in vacanza in campagna dai nonni non era raro che dovessi nell’afoso pomeriggio con altri giovani andare a “batar i bandoti” per spaventare i merli che mangiavano la frutta matura e specialmente l’uva, ma la frutta la mangiavamo…noi ragazzi…!!  

 

    Tralasciando le note tristi, era invece espressione di allegria il falò che “brusava la vècia”, foriera del come le falive delle fascine infiammate salivano in alto, nelle serata ancora fresca, della bontà o meno della stagione primaverile che stava per iniziare.

       Ma, altro momento da non dimenticare era quello in autunno o di fine estate, la vendemmia. Frotte di  contadini raccoglievano l’uva cantando le canzoni tramandate da decenni. Si mostava poi sull’aia in grossi tini e a piedi scalzi da giovanotti o da ragazzette previo lavarsi….per bene dalle ginocchia in giù.   Si sentiva per l’aria un profumo inebriante, quello del mosto col quale si faceva all’istante “el sugolo” o “el brulè caldo”

 

Questa lunga dissertazione sulla vita di un tempo, che sembra antidiluviana tanto sono mutate repentinamente le epoche, potrebbe continuare per un bel po’, molto si potrebbe ancora dire, ma penso di aver stancato…sufficientemente.   Scusate.  

 

C'era una volta